Probabilmente è stata la sorpresa più grande di questa pigra estate festivaliera in Italia. Non perché il suo inventore e protagonista non sia da molto tempo (nonostante la giovane età) conosciuto e apprezzato come uno dei più fantasiosi, complessi e innovativi scrittori per il palcoscenico (e anche attore e regista), ma a sorprendere è proprio come Mimmo Borrelli sia riuscito a dare corpo alla propria scrittura e al proprio immaginario teatrale nei luoghi stessi dove essa è, con lui, cresciuta e maturata. E’ nato così Efestoval, un festival che sin dal nome, prestato dalla divinità del fuoco, subito esala vapori sulfurei se non incandescenti.

E serve anche a «esorcizzare», in qualche misura, quei fuochi da cui hanno preso triste nome terre poco lontane da qui. Del resto l’intera zona dei Campi Flegrei, di cui Bacoli è al centro, gorgoglia e bullica come è noto, e i luoghi hanno spesso ascendenze mitologiche con nomi che sono funzioni e fondamenti della cultura greco-romana e quindi occidentale: lago di Miseno, l’antro della Sibilla di Cuma, il lago di Averno (ovvero proprio gli Inferi). E quella ricchezza termale situata tra il vulcano e il mare, fece amare questa terra da tutti i primi imperatori della famiglia Giulio-Claudia, così che ogni poche centinaia di metri affiorano pietre e rovine di quelle loro dimore, che per qualcuno furono il buen retiro finale (compreso il leggendario Adriano). Tutto questo viene a galla non per voglia di erudizione, ma per la semplice osservazione dei cartelli stradali. E’ curioso semmai che il ministro Franceschini, che ripete spesso di voler «spendere» in fretta il patrimonio culturale di cui l’Italia dispone, non si sia visto da queste parti, o a questo festival, che certo ha minor appeal mondano rispetto alla mostra del cinema di Venezia o a quelli gestiti da Brunetta a Ravello.                                                          

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Eppure, per una volta, anche una espressione abusata come «site specific» qui ha un valore dirompente, a cominciare dalla mobilitazione che Borrelli, con una partecipazione volonterosa ma non ricca dell’amministrazione locale, ha saputo indurre e sollevare. A cominciare dall’inaugurazione, che ha visto lo stesso artista riprendere a monologo la sua Napucalisse, e l’intero, lussureggiante parco Cerillo rinascere letteralmente in pochi giorni, grazie a decine e decine di ragazzi che lo hanno liberato dai rovi che lo ricoprivano, per gestire poi in maniera impeccabile l’arrivo del pubblico alla rappresentazione. Miracoli rari ma che evidentemente possono ancora avvenire.

Così come è straordinaria l’ambientazione di tutti gli spettacoli del festival, quelli che Borrelli stesso ha voluto, per la loro «artigianalità» a fianco a lui per questa prima edizione di Efestoval. Come Vincenzo Pirrotta, il cantore di una terragna antichità siciliana, che l’altro ieri ha fatto rinascere il suo N’Gnanzoù, ovvero il cunto della mattanza dei tonni e delle implicazioni esistenziali dei pescatori, sul lago Miseno, dove anche il pubblico galleggiava su una chiatta mobile (roba da richiamare uno dei primi spettacoli di Ronconi, geniale quanto sfortunato, come la Kätchen kleistiana sul lago di Zurigo…). E non meno significativi saranno gli altri titoli della manifestazione, che andrà a concludersi il prossimo sabato 26, con Enzo Moscato, padre nobile e riconosciuto di ogni contemporanea scrittura napoletana (e anche nazionale), che porterà il suo Patria puttana in un finora invisibile casino di caccia dei Borbone nel parco vanvitelliano del Fusaro ( e a proposito delle sue rare apparizioni, Moscato è domani sera al Vascello di Roma con il suo Compleanno, nell’ambito delle Vie dei Festival).

Ma da Bacoli bisognerebbe ancora parlare a lungo del testo con cui Borrelli ha voluto inaugurare: quella sua Napucalisse che rispetto all’edizione presentata al Napoli Festival si è fatta più serrata, quasi non volesse dar scampo. A parlare infatti nel ribollente linguaggio dell’artista, è qui il Vesuvio, padre di tutti i mali e le paure, ma anche di molte cose buone per la città che si è sdraiata e moltiplicata alle sue pendici, avvicinandosi sempre di più al cratere, nonostante il «rimbrotto» vulcanico che eruttando distrusse Pompei ed Ercolano. Qui il pubblico, quasi fosse curioso e soggiogato alla maniera di Plinio il Vecchio, si avvicina pericolosamente all’eloquio vulcanico, perfido e crudele nel rinfacciare alla città sottostante i suoi errori e i suoi crimini, quasi tentasse la divinità di una nuova, palingenetica eruzione. Nello stesso tempo però mister Vesuvio esita, dubita, a tratti sembra perfino commuoversi alle debolezze di quella sua creatura di cui occupa il ventre.

Borrelli non usa mezzi termini, nel suo testo torrenziale e così «flegreo» da renderne a tratti complessa la comprensione (forse anche per un napoletano), nel fustigare morale, religiosità e politica attorno al Vesuvio: gutturale e autorevole in giacca nera formale, smodato e aggressivo quando si agita scosso da una violenza erculea. E’ un’esperienza poco usuale per uno spettatore teatrale, venire assorbito così totalmente da qualcosa che non è solo spettacolo, ma scelta e orizzonte culturale che dalla carne esce, e ne mantiene tutti i caratteri, la forma, e i prezzi da pagare. L’entusiasmo che alla fine ha abbracciato Borrelli e il suo interlocutore musicale sulla scena, Antonio Della Ragione, suonava come l’esondazione ragionata e inappellabile di tutte le solfatare attorno.