In un celebre articolo pubblicato sul Manifesto nel marzo 1978 Rossana Rossanda scriveva che nel linguaggio delle Br era possibile sfogliare l’«album di famiglia» del comunismo italiano degli anni Cinquanta. Siamo nel pieno del sequestro Moro e l’articolo susciterà forti polemiche, in particolar modo nel Pci. Con il suo Cattolici e violenza politica (Marsilio, pp. 400, euro 22) Guido Panvini, studioso estraneo alle polemiche di allora, torna in maniera brillante sul tema allargando la prospettiva alle radici religiose del percorso che avrebbe portato negli anni Settanta alla scelta della violenza politica. L’obiettivo è seguire i passaggi che hanno dato forma a un immaginario in cui l’opzione della violenza era maturata già prima del Sessantotto e «all’interno di un percorso religioso». Due eventi sono posti al centro della ricostruzione: la repressione poliziesca nel luglio 1960 (in occasione delle proteste contro Tambroni) e il Concilio Vaticano II (1962-1965).

Tra anticomunismo e rinnovamento

La scelta del luglio ’60 come data di partenza coglie nella riemersione del mito della Resistenza, nuovamente «tradita», un momento di radicalizzazione alla vigilia del primo centro-sinistra. Si colloca in questo contesto l’inizio della polarizzazione investigata con dovizia dal libro: da un lato, l’ostilità crescente dei settori della destra cattolica (spesso in collegamento con i neo-fascisti) nei confronti dell’apertura ai socialisti; dall’altro, lo spostamento di una parte della sinistra cattolica verso posizioni più radicali. I paragrafi dedicati al sottobosco conservatore, più eversivo a mano a mano che si riduceva la capacità della Dc di riassorbirlo, sono probabilmente i più originali, anche perché forti di un inquadramento internazionale dei miti dell’intransigentismo: si pensi al laboratorio francese dell’Oas, l’organizzazione eversiva nata contro l’indipendenza dell’Algeria.

In Italia questa forma di anti-comunismo trovava riscontro nel milieu di Luigi Gedda e in certi settori dei partigiani cattolici. Panvini ricorda come si trattasse di un’area variegata, al cui interno si trovavano anche pulsioni apertamente anti-clericali. Si comprende quindi come il legame tra le diverse anime fosse politico e non tanto religioso, nonostante la capacità performativa della cultura dell’anti-modernità, forte di un bagaglio secolare che identificava l’ultima crociata nella battaglia (anche violenta) per il ritorno alla Cristianità. Venendo alla questione dei rapporti di forza, non si può tralasciare la sostanziale marginalizzazione di questi settori nella chiesa di Giovanni XXIII, uno dei principali bersagli della polemica degli intransigenti.

Certo, ha ragione Panvini quando ricorda che questa destra ha pesato nella scrittura delle pagine più nere della storia d’Italia, ma il parallelismo tra i due opposti percorsi (estrema destra e gauchisme cristiano) risente di una mancanza di specularità, non soltanto quantitativa, ma soprattutto d’immaginario, parole d’ordine e aspirazioni. Il campo su cui si giocava la partita di una generazione di cattolici era dentro la chiesa del Concilio Vaticano II. A questo proposito, l’autore sottolinea come l’aggiornamento conciliare abbia favorito il dialogo con la cultura comunista e con i movimenti guerriglieri latinoamericani. Dalla contaminazione con i movimenti anti-coloniali e per il Vietnam è partita quella riflessione sulla legittimità della violenza contro il potere (Gutiérrez, Torres) che ha trovato riscontro nei Cristiani per il socialismo, nelle Comunità di base e perfino in Gioventù studentesca, il primo gruppo di Giussani. Si può dunque convenire con lui quando scrive che pauperismo e terzomondismo cristiano sono stati due elementi costitutivi del discorso sulla violenza e della cultura del Sessantotto.

Per comprendere perché i gruppi del «dissenso cattolico» abbiano abbracciato la causa della nuova sinistra l’elemento culturale non è però sufficiente. Occorre ricordare che per l’Italia la vera scommessa politica sollevata dal Concilio era scardinare la compenetrazione tra chiesa e potere su cui si era fondato lo stesso patto costituente. Anche se la sinistra cattolica rivoluzionaria non è stata un prodotto esclusivamente italiano,una cesura va quindi ricercata nella sconfitta del progetto post-conciliare di fronte alla crisi del centro-sinistra e all’irriformabilità della chiesa italiana di Paolo VI. Con l’esplosione del ‘68 si passerà da una sfida (democratica)per liberare la chiesa e riformare lo Stato alla lotta contro lo «Stato borghese». Anche se la speranza di una chiesa diversa non verrà mai completamente abbandonata, altri erano ormai i riferimenti di una generazione cattolica in via di secolarizzazione: il martirio laico di Guevara, l’operaismo, la riflessione di Marcuse sull’alienazione della società tecnologica.

Un binomio irrisolto

Nelle pagine finali dedicate alla biografia dei militanti cattolici che hanno intrapreso la lotta armata Panvini disegna un quadro in cui figure provenienti dagli ambienti della chiesa incrociano quelle di militanti dal trascorso religioso: da Curcio e Margherita Cagol a Semeria a Annamaria Ludmann. Una figura importante – spiega Panvini – era quella di Corrado Corghi, dirigente della sinistra democristiana, profondo conoscitore dei movimenti latinoamericani e, dopo aver abbandonato il partito nel ‘68, un punto di riferimento del gruppo reggiano dell’«appartamento» di Alberto Franceschini dove era forte una componente cattolica protestataria. Senza entrare nel merito dei singoli casi, resta il problema di capire se ci fosse un collegamento diretto tra l’appartenenza religiosa e l’opzione del comunismo. Se il binomio fede e politica risulta evidente nelle esperienze del dissenso, lo è invece meno in questo secondo passaggio di una strenua minoranza dall’esperienza extra-parlamentarealla lotta armata. Di mezzo ci sono eventi traumatici e nuove cesure che hanno coinvolto l’intera generazione di militanti: da piazza Fontana alla radicalizzazione del conflitto politico dopo il biennio ’68-69.

Con questo libro Panvini ha dunque aperto un nuovo filone di storia culturale che senza dubbio darà nel tempo i suoi frutti. Il principale punto tutto da sciogliere riguarda quel complicato rapporto che lega tra loro le culture politiche, l’evoluzione del contesto storico, la genesi e la penetrazione del linguaggio della violenza (e del martirio) e quella sfera insondabile dalla quale scaturiscono scelte così drammatiche.