Un veterano (Ben Foster) e sua figlia (la scoperta neozelandese Thomasin Harcourt McKenzie) vivono nascosti nei boschi di un parco alla periferia di Portland come se fossero le giungle del Vietnam, fino a che non vengono scoperti, e i servizi sociali cercano di reintegrarli. È Senza lasciare traccia (Leave No Trace), di Debra Granik, regista dallo sguardo non compiaciuto, non paternalistico e non sentimentale che, come Kelly Reichardt (anche se con interessi diversi) ama il paesaggio umano e geografico dell’America più remota, invisibile.

VINCITRICE del Sundance nel 2010 con Winter’s Bone, la regista del Massachusetts si sposta dalle Ozark poverissime e infestate di metanfetamina fatta in casa, ai verdi profondi del Nord West, con una love story delicata, ispirata a fatti realmente accaduti, ancorata a precisi rituali di sopravvivenza e a una vocazione insopprimibile e dolorosa per i margini. Come Winter’s Bone, anche Leave No Trace è un film che ha un senso del posto, un’identità e un’intimità regionali fortissimi – Granik opera come un’ antropologa della visione.

La storia di Will e Tom ha poco a che vedere con la chiassosa, erudita, famiglia di Capitan Fantastic. La grande tradizione utopica che attraversa la storia americana, la (molto americana) diffidenza istintiva nei confronti di una società «troppo» organizzata, il mito fondante della Frontiera, sono tutti punti di riferimento della regista. Ma la scelta di Will (e, si vedrà, della stessa Tom) non ha il privilegio della libertà filosofica ed esistenziale di quella del capofamiglia Viggo Mortensen: a parte quel passato di guerra che chiaramente non riesce a scrollarsi di dosso, Will non possiede nulla. Il loro piccolo accampamento «smontabile» nel grande parco verde è completamente fuori legge, altrettanto che crescere sua figlia lontano da una scuola – anche se, scopriranno gli assistenti sociali- l’istruzione della ragazzina rispetta gli standard accademici ed è molto avanzata per la sua età.

EPPURE, quello che rende interessante il film di Granik – insieme alla cura della sua bellezza visiva e al dolcissimo rapporto tra genitore e figlia in cui l’equilibrio di chi protegge l’altro si capovolge nel corso dell’azione- è proprio il suo rifiuto di ridurre l’emarginazione di Will e Tom a un problema sociale. Dietro alla loro storia, si intravedono infatti il mondo sotterraneo delle carovane di camper dei libri di Stephen King, delle piccole comunità remote, invisibili alle armate di turisti che pattugliano il great American outdoor, di «accampamenti» che funzionano senza acqua corrente, elettricità o internet, la Slab City di Below Sea Level di Gianfranco Rosi….. Perché la volontà di esistere completamente ai margini, di non «partecipare», può essere anche una libera scelta, e un diritto.