«Il corpo e la mente sanno come sfuggire a ciò che è troppo doloroso gestire. Come gli ustionati raggiungono una soglia massima di dolore, così chi è ferito nei sentimenti scopre che il dolore è un’altura dalla quale per un po’ può osservarsi». Queste parole tratte da Scritto sul corpo di Jeanne Winterson si prestano bene a descrivere la relazione tra dolore, coscienza e conoscenza in alcuni dei film che in questi giorni si sono visti nei concorsi principali del 36° Torino Film Festival (fino all’1 dicembre).
Nel brasiliano Temporada di André Novais Oliveira, già in concorso a Locarno nella sezione Cineasti del presente e ora in competizione anche a Torino, una donna di nome Juliana giunge con un contratto di lavoro nel comune di Contagem, nello stato del Minas Gerais. In assonanza con il nome della città, il suo compito è ispezionare, di casa in casa, cortili e balconi per eliminare ricettacoli di acqua stagnante in cui potrebbero riprodursi gli insetti che portano malattie endemiche come il dengue o la leishmaniosi. Questo pretesto narrativo offre la possibilità di addentrarsi nei meandri del proletariato brasiliano, di osservare senza alcun voyeurismo corpi, strade, interni di case. A un certo punto del film, per ispezionare il tetto di un’abitazione, Juliana deve salire una scala: esita, protesta ma infine giunge fino in cima. Su quell’altura immersa nel silenzio di metà mattina, si apre un panorama bellissimo di case e baracche abbarbicate sulla collina ed è come se lo sguardo abbracciasse le contraddizioni della sua stessa vita. Si accorgerà che quanto sta vivendo non è solitudine ma libertà.

LA SOLITUDINE, invece, permea la vita della piccola protagonista del filippino Nervous translation di Shireen Seno, giovane regista formatasi in Canada che alla sua opera seconda dopo Big Boy (2012) torna a raccontare la fatica di crescere. Ambientato a metà degli anni Ottanta, il film è il ritratto dolceamaro di una bambina timidissima il cui padre è lontano e la madre fa un lavoro che le lascia appena il tempo di un saluto a inizio giornata. Lei ascolta ossessivamente le parole d’amore che il padre incide per la madre su delle audiocassette, sogna di acquistare una penna miracolosa e con la sua minuscola cucina giocattolo si cucina veri e propri pasti. Come il fuoco di una piccola candela è in grado di cuocere un pugnetto di riso, anche un piccolo corpo può vivere un’autentica sofferenza.
Di proporzioni storiche è invece l’alienazione che segna la vita di Angelo, protagonista dell’omonimo film di Markus Schleinzer che prende spunto dalla figura realmente esistita di Angelo Soliman, portato come schiavo ancora bambino in Europa nei primi del XVIII secolo. Acquistato da una contessa, Angelo diviene l’oggetto di un esperimento educativo che lo trasforma in «moro di corte» a metà tra artista e fenomeno da baraccone che alla propria storia reale sostituisce la leggenda. Angelo cede alle lusinghe della sua condizione di schiavo che ha avuto accesso a un’istruzione e a una vita agiata finché non decide di vivere con la donna che ama. Allo sdegno e alla condanna della corte, l’uomo replica: «Non voglio più essere un negro» ma purtroppo nessun soggetto decide cos’è in piena autonomia e la schiavitù di Angelo non cessa neppure dopo la sua morte.Sc

OGNI CORPO porta scritti su di sé i segni delle relazioni di potere in cui è imbrigliato e delle esperienze che ha vissuto. Tra i documentari del concorso internazionale del TFF, Cassandro, the exotico! di Marie Losier racconta la figura di un lottatore di wrestling che ha fatto dell’esotismo, della stravaganza e della non conformità di genere il tratto caratteristico della propria «persona» spettacolare. Cassandro, infatti, è un pioniere della lotta libera in body di strass e permanente da diva. Marie Losier lo filma come fosse un personaggio di Kenneth Anger che emerge dai fuochi d’artificio, divinità ammaccata con un corpo dolente di bruciature, suture, traumi, lesioni, concussioni e interventi chirurgici, una regina del deserto che stende i suoi panni splendidi in un cortiletto polveroso di un sobborgo a El Paso, Texas.
Il film narra un personaggio di frontiera in una terra di frontiera, lo segue nelle sue imprese in un momento della vita in cui «il corpo dice basta ma l’ego dice continua» e perde però progressivamente presa su Cassandro che si fa man mano più sfuggente, poco a fuoco come un volto su Skype.

AL CORPO martoriato della persona, nel concorso Italiana.doc fa da eco e contraltare il corpo ferito della terra e del fiume nel documentario Bormida di Alberto Momo. Il regista ha dichiarato di sentirsi come un «traduttore» di un lavoro collettivo (realizzato con Laura Cantarella e un gruppo di studenti del Politecnico di Torino) nato per indagare l’immaginario di una valle segnata dall’inquinamento industriale prodotto nei decenni da imprese come l’ACNA o la Ferrania.
La valle è quieta e bellissima, attraversata da un treno che porta echi di altre valli in lotta non lontano da lì. Marina Garbarino, la militante anti-ACNA alla cui memoria è dedicato il film, mostra le foto e i documenti di anni di proteste represse spesso con la violenza: «Quando la scelta è tra perdere la lotta o morire, puoi solo metterti in marcia». Il fiume è contaminato e ancora oggi basta scavare poco per trovare sottoterra i liquami che incidono sui corpi degli abitanti la storia di un sopruso.

FRAMMENTI tratti dall’Archivio del Cinema d’Impresa e fotogrammi dipinti da Paolo Leonardo evocano i fantasmi di un passato in cui si è creduto o fatto credere che la vita di un luogo era legata a quello stesso sviluppo industriale che ha finito per avvelenarlo chissà ancora per quanto tempo.