È un libro inquieto questo Una voce sottile di Marco Di Porto (Giuntina, pp. 186, euro 15). Vi parlano, al contrario di quanto dice il titolo, una pluralità di voci e con molte cifre diverse. È una storia che si interroga sulla fede in tempo di guerra e in tempo di pace, che lancia domande al cielo e non si attende risposta. Ha molti registri perché non è solo un romanzo, non sono solo ricordi, non è solo una storia personale o famigliare, è un conto da pagare con la propria esistenza in vita e con il percorso che ti ha fatto venire al mondo oltre ogni ragionevole previsione.

Rodi, l’isola delle rose, è per Di Porto un luogo di origine magico, di profumi di mare e di vento, di fiori e di vita anche quando è una vita violata come quella della comunità ebraica rodiota durante la seconda guerra mondiale.

L’ENNESIMA STORIA ITALIANA dimenticata al di fuori dei patrii confini. È nel 1912 che – in una primavera ricca di profumi – l’isola dell’Egeo viene occupata dall’esercito italiano e, negli accordi seguenti al primo conflitto mondiale, diviene provincia del regno e parte dell’Italia fascista. Così molti dei suoi abitanti, anche gli ebrei, divengono sudditi di casa Savoia. In italiano studiano e parlano, oltre che in turco, in greco, in ladino – la lingua di derivazione ebraico spagnola che gli ebrei sefarditi portarono con loro una volta cacciati dalla penisola iberica nel 1492.

Ma non è di loro che scrive specificatamente il bel libro di Di Porto anche se il lavoro per ricostruire le parole della juderia – l’antico quartiere ebraico – è condotto con un’attenzione quasi forzata. Il racconto cerca invece una voce, una voce sottile, nascosta dalla lontananza – solo in parte geografica e cronologica – per dare parola ad un nonno amato e sconosciuto, ad una famiglia perduta e poi ritrovata, per fare i conti con la diaspora di dispersi nel mondo quale quella degli ebrei rodioti sopravvissuti. Anche se il punto di partenza e quello di arrivo restano comunque i quartieri e la luce di una Roma viva e popolare che Di Porto, redattore della rubrica di Rai 2, Sorgente di vita, ha raccontato nei suoi lavori precedenti – Kaddish 95 e altre storie (Pequod) e Nessuna notte è infinita (Lantana).

LA VITA DI NONNO SOLLY – commesso a Rodi nella libreria di un padrone cui interessano i libri solo in quanto merci – è raccontata, questa si, con la cifra del romanzo. E la questione della fede attraversa quieta le lettere d’amore e la lontananza in un epistolario con una giovane innamorata. Il racconto di Di Porto narra la vita della juderia di Rodi, tra i suoi vicoli e le sue case, tra commercianti facoltosi, piccoli artigiani e la povertà dignitosa di famiglie che intrecciano i propri destini. È un mondo intero quello che le pagine tratteggiano in una ricostruzione attenta alla storia oltre che alle emozioni. C’è l’abbandono della comunità ebraica da parte delle autorità italiane che dopo l’8 settembre del 43 consegnano l’intero gruppo ai nazisti. Unica eccezione l’intervento del console turco Selahattin Ulkumen che salva gli ebrei di cittadinanza turca grazie alla neutralità del paese durante il conflitto. È così che si salva la piccola Judith cugina di Solly.

Un racconto che incrocia pensieri, sogni e desideri sia dei perseguitati che dei persecutori. E questo è uno dei pregi del libro: l’assenza di un confine tra buoni e cattivi anche di fronte all’irrimediabilità della storia che colloca persecutori da una parte e perseguitati dall’altra. E poi il viaggio verso i campi di sterminio – un viaggio solo evocato ma che in questa assenza di racconto diventa ancor più struggente per chi vorrebbe risposte alle domande della storia e della vita. Mesi di prigionia e violenza nei campi di sterminio e nelle marce della morte a cui nonno Solly sopravviverà, unico della sua famiglia, a parte quelli che erano partiti «prima».

Nella storia della comunità ebraica di Rodi infatti c’è un «prima» mitico che precede la guerra e le leggi razziali. E che ne ha – paradossalmente – consentito la sopravvivenza in altri luoghi: è quello strano caso che ha voluto che i ragazzi venissero mandati «prima» della guerra lontano dall’isola. La diaspora rodiota risale quindi a «prima», quando – poveri o ricchi che fossero – i giovani venivano mandati in Congo, in Argentina, in Sudafrica. Lì si è salvata la comunità di Rodi. «Prima». Ed è con questo «prima» che nonno Solly fa da sponda quando, sopravvissuto ai lager nazisti, si reca a Buenos Aires a cercare i fratelli emigrati «prima» che la distruzione della comunità di Rodi voluta dai nazisti fosse consumata. E lì lo raggiunge nonna Rosa per sposarsi in un luogo vivo e inviolato, lontano da quella Roma dove il destino conduce Solly dopo la liberazione dai campi nazisti. La Roma di nonna Rosa, città del papa e di uno dei più antichi ghetti della storia, è comunque contaminata dalla volontà di sterminio.

MA IL ROMANZO SI FERMA alle soglie della deportazione, Di Porto abbandona lì la cifra del racconto per lasciare pudicamente la parola ad un’unica intervista rilasciata da nonno Solly nel 1952. È il pudore e il rispetto che limitano l’immaginazione al di qua del treno che conduce gli ebrei rodioti ad Auschwitz e che lasciano la narrativa al di qua del filo spinato.

Per raccontare il dopo le pagine cambiano passo e Di Porto regala brani di una prosa piana, da reportage letterario, per raccontare quanto accaduto a nonno Solly dopo la deportazione, il matrimonio e poi la morte assurda. Fili che nei decenni seguenti passeranno ancora una volta per paesi e continenti diversi, tessuti da viaggi attraverso l’oceano in una sorta di esperanto coniato tra i lontani cugini ritrovatisi anche sul bagno asciuga di Tel Aviv: Roma, Argentina e Israele per rintracciare gli echi di una vita e raccontarli con voce sottile.