Ci pensa Johnnie To a dare uno scossone alla tranquilla prevedibilità del fuori concorso di Cannes. Dopo Drug War, presentato in concorso a Festival Internazionale del Film di Roma, To, in collaborazione con il fido Wai Ka Fai, autore della sceneggiatura, firma una folle commedia sentimentale mutante caratterizzata da un’inquietante venatura horror, libera e beffardamente sperimentale, attraversata da un’incontenibile voglia di cinema che gioca sempre a tutto campo.

Sotto le mentite spoglie di un giallo sui generis, Johnnie To ridisegna la geografia e la topografia di Hong Kong. Cineasta visionario e geometrico, To, dall’alto di una filmografia che ha superato una cinquantina di titoli, senza contare i film ‘solo’ prodotti, continua a sorprendere per la spericolata vocazione a realizzare film sempre e comunque fuori dagli schemi.

Andy Lau interpreta Johnston, un surreale detective cieco che conduce alle estreme conseguenze la teoria del dottor Lecter che bisogna immedesimarsi nel punto di vista dell’assassino. Dopo aver contribuito a catturare uno squinternato solito gettare acido muriatico sui passanti dall’alto della sua terrazza per digerire i tradimenti della moglie, Johnston entra in contatto con Ho Ka (Sammi Cheng) un’agente di polizia che desidera ritrovare una sua amica scomparsa da molti anni.

Il plot, secondo una tradizione squisitamente hongkonghese, si complica subito in maniera vertiginosa. Basta però surfare sugli indizi e lasciarsi contagiare dal piacere spudorato e anarcoide della messa in scena per essere immersi in un vortice di intuizioni, idee e soluzioni visive che basterebbero a fare l’intera filmografia di un Vinterberg qualsiasi.

Al di là della schietta gioiosità del film, la cui follia slapstick rimanda alla comicità autoctona di Hong Kong, per intenderci i film di Ricky Hui, le action comedies di Jackie Chan e Sammo Hung, senza contare il ‘mo lei tau’ di una maestro del genere come Stephen Chow, To controlla con estrema perizia la frenesia cinetica del suo film.

Se Johnston per orientarsi nell’appartamento di Ho ka misura l’ambiente utilizzando una pallina, To usa la macchina da presa per mappare il territorio in assenza della vista.

Blind Detective, infatti, è soprattutto uno straordinario film sul principio d’individuazione del reale. Ossia non solo come riconoscere il mondo quando non riesci a vederlo ma soprattutto come conferirgli una forma tale, alternativa a quella esistente, in grado di permetterti di vivere in esso. 

Alla stregua del Lau Ching Wan di Mad Detective, Andy Lau vive in un mondo parallelo nel quale interroga le anime dei morti per orientarsi nel mondo dei vivi, dei vedenti.

Dotato di bastone metallico ripiegabile, che ricorda quello in dotazione al Devil della Marvel, Johnston, Johnston, investigatore patafisico, usa sino alle estreme conseguenze la scienza delle soluzioni immaginarie per contribuire a una parvenza di ricomposizione della possibilità di continuare a leggere il mondo. Per poterlo raccontare e trasmettere (il senso del finale è tutto qui). Non è difficile vedere nell’investigatore che rimette insieme i pezzi del passato, armonizzando il mondo dei vivi e dei morti, una traslitterazione della metodologia del lavoro del regista secondo Johnnie To.

Come in Running on Karma, altra celebre collaborazione fra To e Wai Ka Fai, Andy Lau offre un’interpretazione scatenata, di quelle che farebbero venire un infarto agli adepti del metodo.

Blind Detectiveè un film ostinatamente teorico. Il piacere puro del racconto è posto al servizio di un’idea di cinema che continua a esplorare i margini dello spazio filmico e del narrare.

In bilico fra screwball comedy e slapstick, thriller e commedia sentimentale,Blind Detective è senz’altro uno dei risultati più audaci della vocazione sperimentale di Johnnie To. E ora aspettiamo al varco coloro che sostengono che To è una sforza spesa e spenta del cinema.