Lazzaro è nelle diciture antiche il malato, si chiamavano così i lebbrosi, e per traslazione i poveri, i disgraziati, ma è anche il rivoluzionario, perciò l’indisciplinato e persino il mascalzone. Soprattutto – almeno nella nostra cultura – è il Lazzaro che il miracolo di Cristo restituisce al mondo dalla morte. Resurrezione: ritorno alla vita, risveglio dopo un lungo sonno. Stai fermo resuscita e cammina recitava il titolo del (magnifico) film d’esordio del regista russo Vitali Kanevski tanti anni fa, (1989), autobiografia di un’infanzia in Siberia, lotta a prezzo della vita contro le restrizioni.

 

 

È una «resurrezione» nel senso metaforico (e laico) che racconta Lazzaro felice, un ritorno alla vita e alla felicità come ci suggerisce il titolo? Non proprio. O meglio: il Lazzaro di Alice Rohrwacher torna nel mondo a distanza di decenni ma che la sua sia una felicità è difficile da credere.

 

 

Come vuole il nome che porta Lazzaro è un povero, uno sfruttato: vive in Italia, dentro una comunità contadina in un tempo non precisato anche se alcuni dettagli ci dicono che è un passato recente. La sua esistenza come quelle degli altri scorre via sempre uguale, quasi fossimo in un reality; nessun orizzonte al di fuori di lavoro e miseria, nemmeno la rassegnazione. E come potrebbe visto che li isola letteralmente un ponte rotto (la proprietà si chiama non a caso l’Inviolata)? I contadini sono gli schiavi di una marchesa, effetto della mezzadria finita nel nostro Paese negli anni Ottanta; i ragazzini non si sa di chi sono figli, nessuno studia, nessuno sa leggere e quando una coppia di giovanissimi fidanzati prova a saltare sul camion del perfido factotum della padrona viene fatta scendere con le minacce.

 

Lazzaro (la scoperta della regista, Adriano Torniolo) è un altro figlio di nessuno, quello buono-buono – che rima sempre con scemo – lo sfruttato dagli sfuttati come dice la nobildonna (Nicoletta Braschi) che soavemente feroce arriva ogni tanto con valigie e figlio biondo decolorato tra il new romantic e il punk Tancredi (Luca Chikovani) avventurandosi sull’impervio sentiero (l’immagine ricorda il Bruno Dumont di Ma Loute).

 

Il padroncino si piglia Lazzaro come «amico», è un capriccio, un giocherello ma il povero Lazzaro è felice (appunto) e non dice mai di no facendosi usare dall’annoiato coetaneo per inscenare un finto rapimento. Finché un giorno arrivano i carabinieri, i contadini vengono liberati: li traghettano altrove, in città, Lazzaro invece viene dimenticato e dato per morto.

 

Passano gli anni e appare di nuovo, se gli altri sono cresciuti o invecchiati lui è uguale a prima, immerso nell’aura di una «santità» che però nessuno o quasi riconosce. Il vecchio factotum della marchesa oggi sfrutta i migranti (la scena è molto bella), i sopravvissuti tra i contadini sono diventati dei marginali, nemmeno un sottoproletariato – parola ormai in disuso – ma proprio chi vive ai margini: piccoli espedienti, furtarelli, chiusi in una baracca arroccata nella periferia sono una «classe senza classe» la cui unica consapevolezza è quella che non torneranno mai ai campi.

 

Lazzaro cerca Tancredi, il figlio della padrona che intanto è decaduto e diventato vecchio: quando lo trova è di nuovo felice. Però lui è sempre il padrone e loro sono sempre i servi sintonizzati con un contemporaneo in cui al precariato si risponde con l’assuefazione, e gli ex-contadini sono assuefatti alla marginalità. Anche se il gesto di Antonia, la più legata a Lazzaro (a cui dà sensibilità fisica Alba Rohrwacher) quando si presentano a casa di Tancredi (da grande Tommaso Ragno) e trovano la moglie che manco li fa entrare le pastarelle invece di tirargliele in faccia le lascia lì, è nobilissimo e potente. Eppure.

 

Alice Rohrwacher è una regista capace di visioni e «meraviglie» rare nel nostro cinema, che fa danzare i suoi attori, professionisti e non (nel cast c’è anche Sergi Lopez) ragazzini e adulti, ponendosi interrogativi e esplorando zone della narrazione poco illuminate col gusto di inventare, giocare, sperimentare forme e potenzialità delle immagini nella ricerca di un confronto col proprio tempo. E forse l’aria del tempo, il suo sentimento, invade sin troppo la narrazione quasi scalzando l’immaginario, il desiderio, l’invenzione – infatti a «salvare» i contadini sono i carabinieri non una rivolta.

 

Corpo celeste  e Le meraviglie, i due film precedenti della regista raccontavano la conquista di una consapevolezza che era anche «rivoluzionaria» seppure sempre individuale. In entrambi una ragazzina saltava la linea invisibile e fortissima che la relegava a una condizione decisa da altri per scoprire un altrove, bello o brutto non era importante perché quel gesto la riportava alla sua «realtà» con uno sguardo diverso, cosa poi sarebbe accaduto, riguardava le possibilità.

 

Qui Lazzaro osserva il mondo come dall’esterno, senza esserne parte né prima né dopo, la «resurrezione» non porta un cambiamento al personaggio ma cerca di produrlo in noi spettatori. Diciamo che quanto accade sotto i nostri occhi quotidianamente, quanto è parte della nostra realtà assume, o dovrebbe assumere, attraverso gli occhi sgranati del giovane contadino una consistenza diversa senza che questo, tuttavia, almeno per i personaggi, porti a un passaggio dall’io al noi. Forse perché non c’è neppure un io alla partenza, non lo dichiara Lazzaro e non lo dichiarano i contadini, segni di un tempo in cui la rivolta, sembra appunto impossibile.
Possiamo vedere molti riferimenti nel film, da Rossellini a Pasolini all’eredità francescana fino a un certo Olmi, pure se infine è poco importante nel senso che ogni autore, e Alice Rohrwacher lo è, rielabora suggestioni e il proprio bagaglio esperienziale in ciò che trasforma nella sua poetica. Girato in supe16, grana grossa e persino «sporca» – complice la fotografia di Hélène Louvart Lazzaro felice è diviso in due parti: non un prima e un dopo visto che nulla cambia nella vita dei suoi protagonisti – o forse sì, nel passaggio imparano a riconoscere di essere stati imbrogliati – ma una campagna e una metropoli periferia anonima e uguale ovunque. È la storia d’Italia, un tempo contadina poi resa operaia che però è stata attraversata da lotte e da conquiste degli uni e degli altri e sarebbe fargli torto lasciarle fuori. Quella di Lazzaro dunque appare più la storia del presente, che quelle conquiste le ha perse arrendendosi – o abituandosi – all’indifferenza, al backlash di globalizzazione e finanza, condotta su un filo narrativo di regia  dagli esiti incerti, che può persino generare confusioni, non sempre controllato (al festival di Cannes il film è stato premiato per la sceneggiatura) in cui però Alice Rohrwacher si getta con coraggio assumendosi ogni rischio.

La risposta ancora una volta, come già negli altri film, sta nel paesaggio accordato con lo stato d’animo e con l’essere al mondo di chi lo abita. Non c’è alcun idillio né nostalgia nella campagna di Alice Rohrwacher che è identica alla città: l’una e l’altra sono sono due teatri distinti, due luoghi chiusi in cui l’esterno non entra, che anzi sembra non vedere, distogliendo lo sguardo al contrario di quanto fa Lazzaro che nella sua apparente «incoscienza» ne mette a fuoco con lucidità le contraddizioni.

 

È questa la sua «rivoluzione»? Anche se non si può fare una rivoluzione nel nome del padrone. In questa confusione c’è quell’aria dei tempi di cui dicevo. La scommessa di Rohrwacher è quella di restituirla, di mostrare un’apocalisse in atto senza quella radicalità che permeava i paesaggi di Maresco e Ciprì (forse il maggiore riferimento) ai tempi di Cinico tv. Il presente è lì, nel volo (con drone) di Lazzaro e al tempo stesso sfugge perché questa è la sua sostanza e la sua sconfitta. Il film prova a raccontarla ma l’immaginario è anche (soprattutto) una bomba che a volte dovrebbe riuscire a farla esplodere la realtà.