Qualche anno fa Eco disse in un’intervista che la televisione ha fatto bene ai poveri ma male ai ricchi: ai poveri ha insegnato a parlare italiano e allargato gli orizzonti, ai ricchi ha ristretto le idee, li ha scoraggiati dall’andare fuori di casa a vedere altre cose. Osservazione che ci pare possa introdurre un discorso sulla bella antologia di scritti, confezionata da Gianfranco Marrone per La Nave di Teseo, uscita da poche settimane (Umberto Eco, Sulla Televisione. Scritti 1956-2015, pp. 533, euro 22); un libro che ricorda, se ce ne fosse ancora bisogno, come Eco e la tv siano stati un sodalizio indissolubile. Tanto da farci chiedere se non ci fosse stata la tv, cosa ne sarebbe stato del magistero intellettuale dell’autore del Nome della Rosa. Intendiamoci: la sua statura immensa, senza nessun dubbio, non ne sarebbe stata sfiorata, ma molto della sua originale e innovativa riflessione sarebbe rimasta orfana di uno stimolo vitale.

QUESTO NON SOLO perché la tv ha un posto decisivo nella prima formazione dell’allievo di Pareyson, che forse mai avrebbe pensato di vedere quel suo brillante studente cimentarsi, insieme a una nidiata di giovani di belle speranze (Colombo, Vattimo, tra gli altri) con i programmi di un neonato mezzo ancora poco diffuso, però già molto disprezzato da una certa cultura. Ma anche perché il mezzo elettronico e la cultura di massa, che esso veicolava a piene mani in un paese chiuso ai fermenti delle nuove scienze, i cui saperi erano ancora fermi alle categorie crociane, offrirono presto alla acribìa di Eco materiale in quantità per l’esercizio di una straordinaria funzione intellettuale del tutto controcorrente.
Sin dal fin troppo celebrato scritto su Mike Bongiorno, che tanto indispettì il presentatore, di cui raccontava in fondo quella mediocritas, aurea e per niente offensiva, che solo la tv riusciva a realizzare in un paese spesso diviso tra alti inarrivabili e bassi indigesti. O da quell’autentico gioiello di saggi sulla cultura di massa con un titolo, Apocalittici e integrati, che sarebbe diventato nei decenni successivi un cult per qualunque analisi mediologica e per sociologi di ogni ordine e grado. Erano scritti che disturbavano i colti del tempo, i quali lo accusavano, come fece Citati, di usare strumenti alti e sofisticati per trattare temi bassi e popolari come i fumetti, la musica, appunto la tv.
Nella raccolta di Marrone compaiono veri e propri saggi, da quelli appartenenti al giovane Eco, alcuni noti, altri meno, o semisconosciuti, a quelli della fase più matura e impegnata degli anni settanta, a quelli ancora legati al nuovo modello tv nato con le private; e insieme ad essi una nutrita serie di scritti perlopiù tratti da quella miniera rappresentata dagli articoli per l’Espresso e dalle «bustine» di Minerva. Qui di certo ha ragione il curatore quando afferma, nell’introduzione, che la raccolta degli scritti non è esaustiva, né si vede come avrebbe potuto esserlo se solo si pensa a quello che il piccolo schermo ha rappresentato per il nostro autore, direttamente o indirettamente. Come afferma Marrone, l’interesse di questo volume sta non solo nel fatto che esso ci permette di comprendere meglio la tv, ma anche nell’essere un prezioso ausilio utile a capire meglio lo stesso Eco.

OGNUNO DI QUESTI SAGGI e di questi articoli rappresenta un periodo della lunga riflessione echiana sul mezzo televisivo, una riflessione che si snoda in tempi diversi e con caratteristiche differenti nel corso degli anni: si passa dunque dalle analisi di tipo estetico e poi strutturalista del primo Eco, a quelle centrate sulla comunicazione e la semiotica del periodo tra gli anni sessanta e i settanta (qui la sua ricerca deve molto proprio alla tv), fino a quelle in cui l’oggetto del discorso non è più il codice o il messaggio ma il testo.

AVVIENE NEI PRIMISSIMI anni ottanta quando Eco dà del piccolo schermo una definizione che mira a censirne il nuovo status sociale, coniando un termine, neo-televisione (contrapposto alla paleotelevisione), che segna una svolta in tutte le analisi del mezzo. In un saggio, naturalmente presente nel volume, che introduce un lavoro commissionato a un gruppo di studiosi dalla Rai (1981), egli indica con chiarezza il tratto ultimo di uno strumento che, già finestra sul mondo, adesso mette in scena sempre più se stesso; un tratto dove la verità dell’enunciato viene sostituita dalla verità dell’enunciazione, un modo forse difficile per dire però come nel piccolo schermo la realtà della finzione prenda oramai il posto, fino a cancellarla, della realtà tout court.
Prima di giungere a questo fondamentale approdo la ricerca di Eco aveva in ogni caso contribuito a fissare, sempre grazie alla televisione, una riflessione, altra pietra miliare del suo magistero intellettuale sui mezzi di massa, che non avrebbe mai finito di instradare molta parte degli studi e delle ricerche sui media.

STIAMO PARLANDO dei discorsi su codice e decodifica aberrante, frutto della sua stagione semiotica e dell’impegno sul tema della comunicazione, con cui lo studioso chiariva come nella fruizione di un messaggio non sempre le intenzioni dell’emittente (persone, istituzioni, poteri) trovassero riscontro univoco sul ricevente. Il quale poteva leggere un messaggio con codici differenti (e aberranti) da quelli di chi l’aveva inviato. Insomma, anche i contenuti della pubblicità o degli spettacoli leggeri o dei telegiornali, magari di governo, potevano ben essere decodificati in modi altri da quelli ipotizzati dall’emittente, a seconda dei fruitori, delle loro conoscenze, del loro immaginario, del contesto in cui vivevano; con risultati non sempre ipotizzabili in partenza. In questo senso, come scriveva capovolgendo un rapporto che si voleva già dato, il pubblico fa male alla televisione. C’è un brano, a nostro parere, contenuto in uno di questi saggi, Ciò che non sappiamo della pubblicità televisiva, scritto nel 1968, che è un apologo incredibilmente efficace nello spiegare meglio di qualsiasi analisi le relazioni suddette: «Alcuni degli Unni, un giorno, ai bordi del mare d’Azov, si spinsero in un territorio sconosciuto e videro cose che i loro compagni non avevano mai visto.

POI TORNARONO e fecero agli altri un racconto. Non sappiamo cosa raccontarono, ma in seguito a quel racconto la grande orda si spinse verso le pianure europee e cambiò il corso della storia. La storia è cambiata in seguito a quel racconto. Eppure noi non sappiamo cosa sia stato raccontato, se il racconto corrispondesse alla ‘realtà’, e se gli ascoltatori avessero capito proprio quello che gli esploratori volevano dir loro. Comunque si mossero e non possiamo affermare cosa avrebbero fatto se il racconto non fosse stato raccontato».
Convinto com’era che la comunicazione non è mai piatta e uniforme, Umberto Eco, rispetto alla vulgata che demonizzava la cultura di massa vista come macchina di rimbecillimento delle menti e di manipolazione delle coscienze, sosteneva la necessità di fare i conti con i suoi strumenti, per capirli e se possibile anche per cambiarli. In età più adulta, lungo gli anni novanta, la tv lo interesserà ancora, ma nel suo sguardo si coglierà più di una delusione per quello che avrebbe potuto essere e non era.

NELLA NUOVA TV a ridosso del terzo millennio Eco saprà cogliere comunque le caratteristiche di una società che annegava nel narcisismo: nel trionfo di uomini e donne senza virtù se non quella di voler apparire, nella mediocritas che s’incarnava nei personaggi della Corrida, nelle serie dell’ispettore Derrick o del tenente Colombo, nei talk rissosi con i politici invadenti, nei processi televisivi, nel trash debordante, l’ex giovane corsivista de il manifesto (Dedalus) vedeva i segnali di un arretramento, di una crisi che era anche sociale: grazie alla tv, se non contava più «essere famosi» ma «essere chiacchierati», allora «pur di essere visti si sarà pronti a fare di tutto» e «tutto farà brodo per apparire ed essere riconosciuti il giorno dopo»; se nella nuova televisione «non si ride dell’attore che imita l’ubriaco ma si paga da bere direttamente all’etilista e si ride della sua depravazione», allora se tutto questo accade c’è un «mirabile rovesciamento di paradigma», che forse annuncia il tramonto di un’epoca. Forse quello stesso rovesciamento che ha portato da tempo i politici a occupare ogni angolo del palinsesto, sostituendo a una decrepita rappresentanza una più moderna, e gratificante, (auto)rappresentazione, e che qui annuncia il tramonto della politica.