Parole: l’unico lusso concesso a Faraj Bayrakdar, poeta siriano, quando dalle carceri di Hafiz al-Assad componeva i suoi versi. Né fogli, né penne. Solo oralità e memoria, strumenti che hanno serbato le poesie composte durante la prigionia tra Damasco e Tadmor. Sei anni di esilio forzato dalla vita privato di notizie dal mondo e dalla propria famiglia. Perfino dell’identità stessa. In una sua lirica, Bayrakdar ricorda l’assegnazione di un numero al posto del nome. Una disumanizzazione volontaria che prelude alla morte dell’individuo.
Questo l’alienante inferno dello scrittore, che nella sua vita ha ben conosciuto l’esperienza del carcere. Con l’accusa di affiliazione al partito comunista laburista siriano, venne arrestato tre volte, l’ultima – quella definitiva – nell’87. Nessun processo fino al 1993, quando venne condannato a 15 anni di lavori forzati per partecipazione ad attività politiche sovversive. Recentemente, è uscita l’antologia poetica dei suoi anni di carcere: Il luogo stretto (Nottetempo, traduzione di Elena Chiti, pp.98, euro 10).

Quale fu il motivo del suo arresto?
Negli anni ’70 ero co-redattore di una rivista letteraria; avevo pubblicato una poesia in cui comparavo due fiumi, il Nilo e il Barada, a Damasco. L’idea di base era che il fiume Barada respirava con i polmoni del Nilo. Ma la similitudine tra l’Egitto di Sadat – che aveva stipulato un accordo con Israele – e il regime siriano, che continuava a invocare una resistenza anti-israeliana, non piacque ai servizi segreti di Assad.

Cosa ha provato nel trasmettere le sue liriche solo attraverso l’oralità?
È stata un’esperienza piena di contraddizioni, di dolore, di straniamento. Ancora oggi non riesco a mandar giù l’idea di uno scrittore privato di penna e fogli per sei anni, alla fine del XX secolo. E niente è cambiato nella Siria del regime degli Assad. Anzi, a dire il vero è cambiato tutto, ma in peggio.

L’esercizio della memoria per far sopravvivere le sue poesie è straordinario; una sorta di ritorno all’epoca dell’oralità preislamica…
Ho allenato la memoria fin dalla prima infanzia, il carcere è stato la prima situazione in cui ho sentito che avrebbe potuto tradirmi, per questo ho iniziato a esercitarla quotidianamente. Alcuni compagni mi hanno aiutato imparando a memoria le mie poesie, ma quando siamo stati trasferiti dal carcere di Tadmor, nel deserto, al carcere militare di Sednaia, vicino a Damasco, e ci hanno dato carta e penne ho fatto una scoperta: ricordavo tutte le mie poesie.

E i suoi compagni cos’hanno detto?
Non gliel’ho mai confessato. Per gratitudine nei loro confronti, per gli sforzi e le buone intenzioni. Loro erano più grandi della detenzione e più alti della volontà del tiranno. Le amicizie del carcere, e in generale quelle della sofferenza estrema, sono rapporti straordinari, in cui l’umanità viene prima delle appartenenze politiche. Per questo l’aspetto più importante è la percezione comune della necessità che la parola giunga all’esterno, a qualunque costo.

Il silenzio della scrittura poteva rappresentare un riparo dai suoi carcerieri?
Esatto: memorizzare i versi era una forma di «tutela» nei confronti dei miei versi. Ma né io né i miei compagni abbiamo tardato ad assumercene la responsabilità. Volevo che i siriani leggessero le mie poesie e ora, per fortuna, sono lette anche in altri Paesi.

Quando ha capito che le sue poesie non erano più un passatempo privato ma un dovere pubblico?
Ero cosciente della crudezza di tornare a ricordare e anche del pericolo se gli scritti fossero caduti nelle mani sbagliate. Ma il senso del dovere mi ha spinto a correrlo: all’epoca in Siria non c’erano ancora testi sul carcere politico. Scrivere poesie per me non è mai stato né un obbligo né un passatempo, ma una necessità assoluta, uno strumento di difesa per conservare il mio equilibrio. Ho iniziato oralmente la seconda settimana di carcere, tra gli interrogatori e i metodi di tortura, pazzi e brutali. Dodici anni dopo, ho scritto un libro in prosa in cui parlo della detenzione, mia e degli altri; avevo paura che il cuore non reggesse e non mi concedesse di vivere, così ho fatto evadere anche quello come le mie poesie.

I versi che ha composto sono letteralmente «evasi» grazie a sua figlia che aveva solo dieci anni. Cosa le ha detto esattamente?
Che avrebbe dovuto divulgare le mie poesie solo nel caso in cui fossi morto in carcere. Ma alcuni miei compagni quando le hanno avute tra le mani, le hanno fotocopiate e pubblicate. E sono grato a tutti loro, anche se hanno agito contro la mia volontà.

«Il luogo stretto» risponde ad alcune caratteristiche della lirica araba classica, una tra tutte l’utilizzo di metafore dal mondo animale. È un modo per parlare di sé senza farlo direttamente?
Scrivo versi alla maniera araba classica, aiutato dagli studi universitari di letteratura moderna. Ma le poesie di questa raccolta sono state concepite in circostanze che somigliavano al vissuto dei miei antenati arabi dei tempi antichi: stessa crudezza, stesso deserto, stesse maledizioni e stessa sacralità. La crudeltà del mondo umano può spingere a fare paragoni con il mondo animale, o a comprendere più a fondo la sofferenza di queste creature quando non puoi parlare delle tue. Il poeta arabo dei tempi antichi era più profondamente legato all’ambiente che lo circondava. Vedeva nel cavallo l’amico e, solidale, cercava di nutrire il lupo che ululava dalla fame.

Perché proprio il nitrito del cavallo per raffigurare il grido del Poeta?
Il motivo è semplice: nel nostro patrimonio culturale, il nitrito è legato agli ideali cavallereschi del mondo beduino, alla nobiltà d’animo, alla forza, al richiamo d’amore o di guerra, all’affanno della sofferenza. Attraverso il nitrito diventavo più forte, m’immaginavo di essere un cavallo, anche se in seguito mi sono convinto che gli esseri umani possono essere più forti dei cavalli.

Qual è la cosa che ricorda con più sgomento degli anni di prigionia?
Tutti i ricordi del carcere sono avvilenti: quando venni trasferito da Tadmor a Sednaia, vicino a Damasco, chiesi un incontro con mio fratello minore – anche lui recluso in quella struttura. La direzione del carcere accettò. Ci portarono in un posto vicino al nostro dormitorio; il direttore chiese agli altri prigionieri di starsene tranquilli, in cambio lui avrebbe lasciato la finestrella della stanza in cui incontravo mio fratello aperta. Quando sentii i compagni che piangevano oltre quella parete, non riuscii più a trattenermi: fu molto triste. Era il primo incontro tra qualcuno del nostro gruppo e un membro della sua famiglia, dopo sei anni idi esilio dal mondo. Sul piano collettivo, i ricordi più dolorosi sono legati ai prigionieri costretti, sotto tortura, a torturare altri detenuti. Io non sarei riuscito a farlo neanche se mi avessero ammazzato, ma ognuno ha la sua soglia del dolore, la sua coscienza, la sua cultura, e la sua fiducia nella nobiltà degli scopi per cui è stato arrestato.

Lei oggi vive da esule in Svezia, ma cosa pensa del suo Paese che vive una situazione così drammatica?
Non volto le spalle al popolo siriano come fa invece la maggior parte del mondo, ma sono costretto a riconoscere che, da ormai quasi sei anni, la Siria viva la «cronaca di una morte annunciata». Il mio Paese oggi è una tragedia universale, di cui la popolazione sta pagando lo scotto per le colpe dell’universo cieco, o che fa finta di non vedere. Mari e frontiere non possono più ignorare la tragedia dei siriani e la società umana deve prenderne coscienza e agire secondo giustizia, anche se in ritardo.

Al di là delle difficoltà oggettive (mancanza di penne e fogli), perché da detenuto ha scelto proprio la poesia come forma d’arte?
Perché, di fondo, sono un poeta. E se non lo fossi stato, avrei cercato di diventarlo: la poesia è il volo più bello della libertà, è qualcosa che non può essere imprigionato.