Il Saggio sul Luogo Tranquillo di Peter Handke (Guanda, 2014, 14 euro, traduzione italiana di Alessandra Iadicicco) è stato scritto, per ammissione dello stesso autore, «in una regione pressoché deserta della Francia, (…) in una zona intermedia, quasi a metà strada fra la metropoli e il mare». Basterebbe forse questa citazione per confermare che, come nel caso dei suoi altri saggi dedicati alla stanchezza (1989), al juke-box (1990), alla giornata riuscita (1990) e ai cercatori di funghi (2013), anche questo esperimento letterario dello scrittore austriaco sia sorto nel silenzio di un ritiro.
Isolato dal frenetico mondo contemporaneo, Handke ha quindi composto pressoché di getto, «nel momento più buio dell’anno, dalla seconda metà di dicembre fino al 31 dicembre 2011», questo suo saggio/esperimento; si può tradurre in entrambi i modi, infatti (oltre che con il termine «tentativo») il tedesco Versuch che compare nel titolo all’opera.
Il Luogo Tranquillo, cui Handke dedica questo suo libro, non è la regione francese in cui il Versuch è stato scritto. Si tratta, infatti, di un saggio sulla toilette, intesa come il «posticino» nel quale potersi ritrarre nella fantasia, ma soprattutto allontanarsi dalla società, dalle sue regole e dalle sue norme. Sospesa fra il racconto e il saggio, l’opera si colloca nel più ampio progetto dell’autore, magistralmente affrontato già con Infelicità senza desideri (1972), volto a indagare il problema universale del rapporto fra individuo e potere nelle sue più differenti manifestazioni.
Giunto alla soglia dei settant’anni, Handke ripercorre la propria vita attraverso le più significative «toilette», soprattutto pubbliche, quelle che ha visitato durante i suoi viaggi, rivelando come esse siano state per lui, già dall’infanzia e dagli anni di studio, uno spazio della segregazione punitiva, ma al contempo un luogo in limine nel quale rifugiarsi per diventare – grazie al linguaggio – un «misuratore di spazi». La toilette diventa, così, nel volume, il simbolo di un allontanamento dal mondo esterno che si rivela necessario per misurarlo con lo sguardo e comprenderlo con parole ricercate nella solitudine della ritirata.
Il Saggio sul Luogo Tranquillo nasce, d’altronde, dalla necessità dell’autore di raccontare «quei passaggi (…) dal mutismo, al ritorno del linguaggio (…) – quei passaggi sperimentati di continuo e, nel corso della vita, con intensità sempre maggiore, nel momento in cui si chiude e si sbarra quella determinata porta, e si resta da soli con il luogo e con la sua geometria, lontani da tutti gli altri».
Per narrare questi passaggi, Handke ha sempre avuto bisogno di luoghi intermedi: ha avuto, per dirla altrimenti, sempre bisogno di soglie. È posizionandosi su queste soglie che Handke ha guardato la società austriaca ed europea, situandosi volutamente in uno spazio di confine fra il silenzio e il linguaggio, sperimentando situazioni «estreme» e regioni – anche geografiche – di «mezzo», nelle quali sostare e far sostare il proprio lettore come in simbolici «passaggi» di benjaminiana memoria.
La toilette è così un luogo in cui l’identità di Handke si è costruita lungo l’asse del tempo, ma è anche uno spazio in cui si è manifestato il «potere curativo del linguaggio», come si legge nel romanzo Ripetizione (1986), inteso quale antidoto alla degenerazione della storia e del mondo. Già con Lento ritorno a casa (1979), Handke si era, inoltre, proposto di raccontare «il mondo buono celato e sempre celatosi» attraverso il resoconto degli attimi epifanici esperiti dal protagonista del romanzo. Anche nel Saggio sul Luogo Tranquillo si manifesta l’esistenza di un «mondo buono celato» dietro alle cose che, retto da quella «mite legge» che secondo Adalbert Stifter sosterrebbe gli equilibri e la geometria della natura, l’autore cerca di cogliere ritraendosi nella toilette.
Anche perciò, mentre il protagonista di Lento ritorno a casa troverà nella «ripetizione» linguistica una possibile via d’uscita dall’impasse in cui si trova, nel suo Saggio sul Luogo Tranquillo Handke ribadirà più volte il potere epistemologico di un «linguaggio» scoperto nell’atto ripetuto di chiudersi in un luogo che è, di per sé, un «problema attraente: nel suo primo significato, un ’promontorio’, qualcosa a cui girare intorno, qualcosa da circumnavigare e in questo caso la nave, il battello o la barca che dir si voglia, è il linguaggio, la lingua di un narrare che perlustra e che delinea».