Quando John Lasseter lo chiamò alla Pixar nel 1999, Brad Bird aveva già girato quello che alcuni puristi considerano tuttora il suo capolavoro – Gigante di Ferro. Ma è stato nel regno 3D di Emeryville che Brad Bird ha trovato il grande successo. Due Oscar: per Gli Incredibili e Ratatouille (rilevato in corso d’opera e firmato con Jan Pinkava). Dopo, due lungometraggi live action: Mission Impossible Protocollo Fantasma e Tomorrowland. E ora – a distanza di 14 anni – un ritorno al futuro con il sequel Gli Incredibili 2, giunto nelle sale (responso al box office da capogiro con 770 milioni di dollari in tutto il mondo, in Italia lo vedremo dal 19 settembre) poco dopo la dipartita di Lasseter, cervello Pixar uscito dopo accuse di «comportamenti indebiti». Lo incontriamo a Los Angeles.

Qual’è stato lo spunto che le ha permesso di riprendere in mano la storia?

L’idea era di seguire gli stessi personaggi sempre impegnati in imprese supereroiche, ma ora come nucleo famigliare. Già ai tempi della promozione del primo film, mi sembrava potesse contenere spunti interessanti, a partire dal regalo ancora «chiuso» dei superpoteri del piccolo Jack Jack di cui il pubblico era a conoscenza ma la sua famiglia non ancora. In questo film scartiamo quel regalo.

Brad Bird

Dal 2004 ad oggi i super eroi si sono moltiplicati nel cinema

Quando abbiamo realizzato il primo, le uniche franchise attive erano l’Uomo Ragno e gli X Men. Batman era ancora latitante – prima che Chris Nolan lo resuscitasse. Certo era un panorama diverso ma al contempo se ti metti nell’ottica che ci sono troppi supereroi e tutto è già stato fatto, non riuscirai nemmeno a fare un tentativo.

Durante la produzione del film ha scartato molte storie?

Nell’ambiente il detto è ’uccidi i tuoi cari’ e io in Gli incredibili 2 ho fatto una carneficina… C’erano schiere intere di supereroi e scene e momenti comici, o comunque situazioni di famiglia anche divertentissime ma che non servivano prettamente al soggetto.

Al solito la tecnologia CGI ha compiuto altri progressi… 

Alla Pixar è sempre stato così. Lo studio ha mosso i primi passi progettando software che permettevano di animare e impostare luci e vedere subito una versione del lavoro a bassa risoluzione ed apportare eventuali modifiche senza dover aspettare due settimane com’era in precedenza. I nostri strumenti sono sempre stati sviluppati per coadiuvare la visione degli artisti. La tecnologia è in evoluzione costante e migliora film dopo film.Oggi si tratta di progressi meno appariscenti, ma altrettanto significativi. Ad esempio in questo film abbiamo potuto creare enormi ambienti con grande facilità. In passato «creare» la folla era complicato, così si optava per primi o medi piani. Ora abbiamo un abilità praticamente infinita e ci possiamo concentrare sui problemi di narrazione….

E quelli di design. Il vostro film ha uno stile scenografico ben definito…

Sapete, ai tempi di Walt Disney venivano in visita agli studios artisti di tutto il mondo e da ogni settore. Passavano agli studios e incontravano gli animatori e si scambiavano idee fra di loro. Compresi molti architetti, gente come Rico Lebrun, Frank Lloyd Wright ed altri, addirittura Eisenstein. Questo creava una meravigliosa atmosfera di scambio di idee. È grazie a questi incontri che molti di noi si sono appassionati di architettura, utilizzandola poi come narrazione. Milos Forman diceva «per fare della bella merda occorre mangiar bene». Un pò rozzo forse ma è una grande verità. Credo che come artista uno debba nutrirsi di esperienze stimolanti, viaggiare conoscere altre arti, parlare, scambiare idee, osservare quadri, ascoltare grandi sinfonie, oppure musica scritta la scorsa settimana…..Per me l’arte è un oceano infinito e più ci sto dentro, più mi vien voglia di nuotare.

Parliamo delle sue più importanti influenze creative.

Troppe da elencare direi. Disney naturalmente, l’animazione fatta sotto la sua direzione è fondamentale. I miei primi mentori venivano tutti da lì: i Nine Old Men (gli animatori storici di Disney, ndr). Conoscere loro e poi Chuck Jones, Tex Avery, Oskar Fischinger, John Hubley e un sacco di Miyazaki. Sto ancora assorbendo le loro lezioni.

E nella live action?

Ci sono due tipi di registi direi. Ad alcuni non interessa molto dove si piazza la cinepresa, gli basta avere le inquadrature necessarie. Primo piano, campo medio, totale… dicono «voglio un totale della stanza e poi una panoramica da qui a qui. Poi ci sono quelli che invece vogliono la prima inquadratura qui e poi vogliono che entri in campo questo e poi qualcun altro prende in mano una tazza e se la porta alla bocca e la macchina la segue fino svelare un volto. La faccia si gira e vede qualcosa fuori campo e cambia espressione e poi esce di campo anche lei. Ecco, io appartengo più a quest’ultimo tipo. Gente come Hitchcock e David Lean e Orson Welles e Akira Kurosawa, Spielberg e Coppola. I registi visivi per natura sono quelli a cui mi ispiro.

Come avete vissuto la dipartita di John Lasseter all’interno dello studio che ha fondato?

Ne so letteralmente quanto lei, abbiamo avuto un avvertimento forse mezz’ora prima che uscisse la notizia sulla stampa. È stata una sorpresa. Gli ho scritto una mail ma non mi ha risposto. Questo non vuol dire nulla perché John non è il tipo che risponde ai messaggi. Però e lo incontravi in corridoio gli potevi chiedere qualunque cosa. Siamo amici da sempre e gli voglio un gran bene. Credo che sia forse stato vittima di un epoca in cui è scomparsa ogni sottigliezza, ogni sfumatura. Lui fu determinante per il primo Incredibili, quando la Disney non era interessata al progetto lui si mise di traverso per proteggerlo. Se non fosse stato per lui non avremmo mai potuto farlo. Anche sul secondo capitolo ci ha dato un sacco di consigli preziosi all’inizio della produzione, poi purtroppo lo abbiamo finito senza di lui. Non lo abbiamo più visto e spero di rivederlo presto.