Nell’antichità classica gli anfratti erano luoghi abitati da ninfe spregiudicate, fascinose sibille o mostri da occultare. L’esposizione Mito e Natura. Da Pompei alla Magna Grecia – dal 31 luglio e fino al 10 gennaio 2016 al Palazzo Reale di Milano, che produce la rassegna assieme ad Electa – si apre invece con l’espressione docile e «disciplinata» del Trittolemo proveniente da Santa Maria Capua Vetere (Caserta).
La pregevole scultura, datata tra la metà del I secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C., affiora dalla luminosa purezza di un blocco di marmo pentelico, irradiandosi nello spazio dissimulante una nicchia. Tale disposizione, ideata da Francesco Venezia – architetto napoletano che firma l’allestimento – attrae e intriga per l’aggiunta di uno specchio nella parete di fondo. Trittolemo, l’eroe di Eleusi al quale, secondo il mito, Demetra trasmise la tèchne per piantare semi e mietere i raccolti affinché la diffondesse a sua volta presso i Greci, si presenta ai visitatori in una doppia verità: lo sguardo frontale con cui incontra l’oggi e un «retro» intangibile che, attraverso la comprensione dei suoi «misteri», diverrà passaggio verso un mondo solo apparentemente impenetrabile.

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Il caso del «Tuffatore»
Il percorso scenografico realizzato da Venezia si dispiega in sei sezioni, più una «settima stanza» che propone un’installazione d’arte contemporanea con quadri di Filippo De Pisis e un giardino esterno alle sale creato dall’Associazione Orticola di Lombardia quale tributo floreale al viridarium delle case romane. Promossa dal comune di Milano-Cultura, dalle Università di Milano e Salerno e dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli con la Soprintendenza Speciale per Pompei Ercolano e Stabia nell’ambito di Expoincittà, Mito e Natura vuole farci riflettere – così com’era negli intenti dell’Esposizione Universale inaugurata ormai sei mesi fa – sul rapporto tra uomo e ambiente, allo scopo di ritrovarne il senso più profondo e condurci da una «classicità verde» a nuove e sostenibili consapevolezze.

Le circa centottanta opere in mostra, scelte dalla sapiente e sensibile curatela di Gemma Sena Chiesa e Angela Pontrandolfo, provengono da grandi musei stranieri – fra i quali si annoverano il Kunsthistorisches Museum di Vienna e il Louvre di Parigi – e nostrani ma anche da «piccoli» musei del Sud Italia, spesso ingiustamente trascurati da istituzioni ministeriali, media e fruitori di cultura. Un esempio fra tutti è il museo di Paestum, che ha prestato a Palazzo Reale – non senza suscitare reazioni contrariate – la celeberrima lastra del Tuffatore (V secolo a.C.) scoperta nel 1968 dall’archeologo Mario Napoli in località Tempa del Prete (Salerno).

Le polemiche hanno riguardato lo spostamento del reperto – già trasportato a Venezia nel 1996 in occasione della mostra I Greci d’Occidente tenutasi a Palazzo Grassi – giudicato da alcuni eccessivamente fragile. Tuttavia, dopo aver ricevuto il nulla osta dell’Istituto Centrale per il Restauro, il coperchio dipinto appartenente a una cassa tombale raffigurante anche magnifiche scene di eros simposiaco, ha intrapreso un viaggio che, è bene rilevarlo, ha avuto origine da un desiderio di conoscenza e non dal becero calcolo «commerciale» di chi avrebbe voluto esibire all’Expo statue impressionanti e facilmente vendibili al pubblico quali i Bronzi di Riace o i kolossoi sardi di Monte Prama. E se il giovane uomo nudo sospeso in quell’atto ripetibile eppure eterno del tuffo ci interroga, con la dolcezza quasi consolatoria degli alberi e delle onde che incorniciano la scena, sul confine tra la vita e la morte, l’oggetto più remoto in esposizione ci costringe a guardare al passato e al presente con i medesimi sentimenti di angoscia e compassione.

In una delle vetrine delle labirintiche strade con muri di acciaio Cor-ten in cui Francesco Venezia ha forgiato gli spazi di Palazzo Reale spicca infatti, tra piatti di terracotta dell’Apulia con rappresentazione realistica di diverse specie di pesci, un cratere euboico dell’VIII secolo a.C. rinvenuto a Pithekoussai (Ischia), il più antico stanziamento greco in Italia.

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Il mare fatale
Nel vaso è descritto un naufragio: intorno a una nave rovesciata, «galleggiano» – tra pesci indifferenti o voraci – silhouette orizzontali di uomini privi di alito divino. Come non pensare alle immagini dei barconi che con terribile quotidianità affondano oggi nel Mediterraneo e ai cadaveri dei migranti che alla stregua di quei lontanissimi navigatori affrontavano il mare con timore ma con la speranza di un’opposta, accogliente riva? Il mare come tomba, però, è icona della nostra epoca, estranea al fatalismo dei Greci e dei Romani che ambivano piuttosto a fare degli oceani la culla di ricchezze e incanti.

Tale aspirazione è visibile in una delle preziosità in mostra, la quale rischierebbe di passare inosservata se non fosse per il forte richiamo del blu che ne contraddistingue la delicata composizione. Si tratta di un frammento pittorico con scena di pesca da Sirmione (fine I secolo a.C. – inizio I secolo d.C.), più in particolare dalla Villa della Grotta di Catullo.

Per gli antichi – che confidavano nel favore del vento e degli dèi, il passo dal mare alla terra poteva esser breve. I segreti consegnati da Demetra a Trittolemo ritornano e si raccolgono, attorno alla ricostruzione di un carro con un’altissima «piramide» di spighe, in una stanza che l’architetto Venezia decora rivestendo i muri con pannelli luminosi, nei quali si succedono alberi che evocano le superbe «stilizzazioni» della natura del maestro giapponese Hokusai.

L’allestimento prende qui il sopravvento sugli oggetti che, in questa sezione della rassegna dedicata alla natura prodiga di doni, si nascondono dietro Atena e Dioniso, divinità poderose eppure capaci di farsi minute nei vasi greci e italioti come gli Eroti vendemmianti dell’anforisco detto Vaso Blu, raro esempio della tecnica del vetro-cammeo (metà del I secolo d.C.) in prestito dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Nemica o alleata?
In un’esposizione dedicata alla natura non poteva mancare il contributo delle città vesuviane sepolte da una memorabile eruzione vulcanica nel 79 d.C. Attraverso finestre che si aprono sull’immaginario dei giardini pompeiani, ammiriamo gli affreschi poco conosciuti della Casa del Bracciale d’Oro (I secolo d.C.). Ed è con l’artificio del trompe-l’œil che siamo invitati a sederci nelle panchine progettate come un davanzale su una natura rigogliosa, popolata da volatili che – se non fosse paragone anacronistico e azzardato – ci proiettano agli ambienti esotici nei quali Frida Kahlo amava rappresentare il suo volto.

Ma, in fondo, è proprio in questa possibilità arcaica e sempre nuova di concepire la natura come nemica o alleata che risiede la «morale» di Mito e Natura. L’ultima sala, consegnandoci un lascito di conchiglie e semi fossilizzati da Pompei e Ercolano, ci fa riaprire il pugno davanti alle nature fintamente morte di De Pisis.

La «settima stanza» concepita da Francesco Venezia è infatti quella della possibilità. Una melagrana aperta, frutto sacro ad Hera – simbolo di fertilità o morte – risplende nelle tele del pittore ferrarese e ci ricorda che per godere della semplice e perfetta bellezza di un chicco è sufficiente non offendere la Terra.