«Voglio vivere per sempre. Desidero il sole luccicante della vita», dice fuori campo l’artista giapponese Yayoi Kusama, classe 1929, mentre sullo schermo, a volo d’uccello, vediamo le sue stanze ossessive fatte di luci intermittenti e ipnotiche, pois che interpretano i vuoti dell’universo ed escrescenze di un body impazzito, che finisce fuori «confine», smarrendosi come in un incubo anche in un campo di fiori. Eppure la sua storia è una via crucis costellata di rifiuti, esili da sé, indebite cancellazioni della sua arte e del suo sentire.

Il documentario Kusama Infinity (regia di Heather Lenz, dal 4 marzo nelle sale, distribuito da Wanted Cinema e Feltrinelli Real Cinema) è il racconto di un’esistenza perennemente in bilico, votata a una pittura dirompente fin dall’infanzia, che si scontra prima con una famiglia tradizionale e portatrice di traumi, poi con l’ipocrisia del mondo culturale americano e – sempre – con il sessismo imperante che avvicina i due mondi di oriente e occidente. Kusama, però, non demorde mai. Giovanissima, parte per New York sfidando le convenzioni sociali del suo paese: sale sull’Empire Building, va in alto per lanciare da lì, dice, la sua rivoluzione del linguaggio artistico.

La profezia si avvera, ma come per Cassandra, nessuno le crede. Lavora senza sosta, inventa un paesaggio interiore dove l’horror vacui risponde al buco della sua anima. Sconta l’incomprensione del mercato e del pubblico, anche quando personaggi come Warhol e Oldenburg la seguiranno con interesse. Forse troppo interesse: le sue sculture morbide (tra cui la Penis Chairs), diverranno la cifra stilistica di quel Claes Oldenburg che un tempo induriva i materiali. «Sorry Yayoi», le dirà la moglie di lui. Dalla sua parte sarà invece Frank Stella, che pagherà a rate, 25 dollari a settimana (per un totale di 75), un suo quadro giallo.

Lei reagisce al furto delle sue idee. Si chiude in studio, copre pure le finestre, quasi si seppellisce in compagnia di quella selva sessuale incontrollata. Ma la storia di questa artista giapponese – che agisce in un continuo straniamento e separatezza dal mondo esterno tanto da accettare, in seguito, di vivere in una struttura psichiatrica, dopo aver inanellato depressioni e tentativi di suicidi – non si disperde di fronte alla negazione della sua identità.

A fermare l’impulso creativo di Kusama non ci era riuscita la madre quando, lei bambina, le strappava i fogli dalle mani. E non ci riuscirà l’oblio cui la consegnerà l’America dimenticando le sue performance contro la guerra, a favore della bellezza del corpo nudo, una volta tornata disperatamente sulla strada di casa. Né potrà invertire la rotta il suo paese natale, Matsumoto che, dopo averla ripudiata (addirittura rimuovendo il suo nome dall’elenco della scuola perché ritenuta scandalosa), sarà costretto a dedicarle un museo, riconoscendola come una celebrity da riconquistare.
Prorpio lì, in quella cittadina rurale stretta fra le montagne, Kusama aveva mosso i primi passi, esponendo al piano superiore del cinema locale, ignorata da tutti. Eppure, aveva già visto e dipinto quelle invisibili reti che intuiva essere le connessioni stregate del mondo.