È da poco uscita La lezione della videoarte, breve ricognizione di una pratica artistica importante nel dibattito critico-teorico sulla cultura audio-visiva contemporanea (Carocci, pp.115, euro 13). A scriverlo è Sandra Lischi, docente di Cinema, Fotografia e Televisione all’Università di Pisa, studiosa che da sempre si dedica a questioni inerenti alle sperimentazioni tra cinema ed altri media. Lischi suddivide la sua lettura in otto capitoli. Si possono trovare riflessioni sulla percezione attuale della disciplina («Videoarte ovunque»), oppure sulle origini storiche («Il modello degli inizi»). Ma ci sono anche analisi di taglio più teorico – per esempio, i capitoli «Installarsi nel film» e «Fra gli schermi».
Nel complesso, gli spunti che il discorso offre sono tanti, ma per necessità di sintesi se ne possono isolare due, forse utili a far risaltare la videoarte come una educazione possibile per lo sviluppo di una relazione più completa con quell’oggetto particolare che, tra teorie e prassi diverse, continuiamo a chiamare immagine.

Koan Occidentali 
Quando si parla di videoarte, Lischi ci ricorda che non si può prescindere dal coreano Nam June Paik (1932-2006), nonostante altre figure e casi importanti – per rimanere in Italia, ad esempio, si può annoverare la trasmissione sperimentale Rai del 1952 con Lucio Fontana, Immagini luminose in movimento.

In merito a Paik, l’autrice fa riferimento alla mostra delle opere di questi alla Galleria Parnass di Wuppertal, nel marzo 1963. Si legge: «Accanto a oggetti sonori e a oggetti di uso quotidiano, denominati anche Zen Objects , la mostra vedeva «installati» nelle varie stanze della villa anche strumenti di riproduzione sonora e visiva. I televisori erano per lo più disposti sul pavimento, uno appoggiato su una cassa, altri due incolonnati l’uno sull’altro, e di quelli che si erano guastati «davvero» uno aveva lo schermo rivolto al pavimento, l’altro (che trasmetteva solo una linea orizzontale) era collocato sul lato più corto, in verticale: Zen for Tv. Le distorsioni dell’immagine erano diverse, e generate in alcuni casi da impulsi sonori ma alcuni televisori prevedevano l’intervento del pubblico, attraverso manopole e interruttori, o un microfono, strumenti con cui il visitatore provocava alterazioni dell’immagine».

Ora, se si interpreta la prassi del coreano agli esordi come un possibile minimo comune denominatore in molti videoartisti durante gli sviluppi della disciplina (Lischi: «l’intuizione e la scoperta della natura metamorfica dell’immagine elettronica»), c’è sicuramente una scelta terminologica che risalta, l’uso ricorrente della parola Zen. Zen Objects e Zen for Tv, ma poi anche Zen for Film (1962-64), per citare titoli essenziali. Al riguardo, di quel periodo è noto l’influsso sulle avanguardie occidentali di John Cage, «nel quadro di quell’incontro fra Zen e Occidente più volte analizzato». Oggi però, se si dovesse individuare quanto rimane di quella esperienza come lezione, una risposta potrebbe essere proprio sul piano della fruizione. Ovvero, al di là di ogni tentazione ludica, considerare davvero il nostro approccio alla videoarte simile a quello che dovremmo avere verso i koan, cioè verso quelle affermazioni/domande radicalmente paradossali dell’insegnamento Zen che forzano le varie «logiche del senso» per (ri)destare, in noi, una natura metamorfica dell’interpretazione.

Ambienti sensibili
Se la cognizione di una videoinstallazione può idealmente articolarsi come una specie di educazione tramite koan, la sua configurazione è senz’altro un qualcosa che non si può limitare al rapporto unidirezionale spettatore-schermo come unità minima. Al contrario, sembra sempre essere in gioco un sistema plurale di riferimenti, teorici e pratici, dove anche la presenza di chi guarda viene chiamata in causa, o messa in discussione in modo esplicito. In merito, sulla scorta del lavoro di Studio Azzurro, Lischi fa presente la necessità di considerare ogni videoinstallazione come ambiente sensibile, nella misura in cui questa terminologia implicherebbe «la processualità di una esperienza, diversa per ogni spettatore anche nella gestualità, nell’incidere, nella vocalità, nel soffio necessari per la visita.» A questo, andrebbe poi aggiunto che «la ricerca sulla (e con la) immagine elettronica ha sottolineato il superamento dell’ontologia del medium specifico».

Alla fine, se un’opera è un ambiente, va da sé intendere sensi come quello della vista e dell’udito come sensi ausiliari e non esclusivi nella nostra relazione con tale spazio. Come leggere allora le forme audiovisive di una videoinstallazione? Senza ricorrere all’«illusione che percepire equivalga a conoscere e capire» (Arnheim), Lischi suggerisce che la videoarte, al suo meglio (Paik, Viola etc.), è lavoro in grado di produrre «conoscenza partecipata». E quindi – aggiungiamo noi – antropologia, premessa e promessa di ogni agire.