Nel suo nuovo libro Cinzia Scaffidi – giornalista, formatrice, docente all’Università di Scienza Gastronomiche di Pollenzo – si mette nei panni di un’ape, Apis mellifera, chiaccherona e curiosa, che guida il lettore alla scoperta di quest’insetto unico, e dei frutti – il principale è il miele – legati alla sua presenza diffusa sulla Terra.

Il mondo delle api e del miele (Slow Food Editore) è un manuale che con l’aiuto di esperti permette di comprendere a 360° la ricchezza dell’apicoltura, i rischi che le api corrono nella società contemporanea, il valore della loro presenza per la riproduzione della vita.
È un libro necessario. Perché oggi che il tema delle api e della loro salute è «percepito» dall’opinione pubblica – fate un esercizio: aprite un motore di ricerca e digitate «scomparsa delle api» – rischiamo di pagare la distrazione che accompagna la nostra convivenza con quest’insetto fondamentale. In 35 milioni di anni le api hanno saputo adattarsi a innumerevoli cambiamenti, spiega l’ape narrante, ma oggi sono emersi troppo rapidamente due elementi che ne mettono a rischio la sopravvivenza: «l’inquinamento dell’aria, a opera un po’ di tutti voi, dalle automobili alle fabbriche» e «le molecole neurotossiche che l’industria ha sviluppato per combattere gli insetti indesiderati nelle coltivazioni. Insetticidi, mi fa impressione questa parola».

Questo è stato possibile, scrive Scaffidi, perché «c’è stata una lunghissima fase, fino a un paio di decenni fa, in cui del miele non importava quasi niente a nessuno. Del miele si ricordavano quando qualcuno aveva l’influenza, o la tosse… lo scioglievano nel latte caldo e via. L’unica a parlare di miele, per tanti anni, è stata una grande azienda produttrice. Faceva pubblicità di miele la pubblicità parlava di miele, faceva vedere un prodotto fluido, ambrato, trasparente e la gente imparava che il miele era solo ed esclusivamente quella cosa là. Peggio: ogni volta che il consumatore si imbatteva in un miele un po’ diverso da quello che vedeva negli spot, si insospettiva». Ma miele non è un nome singolare, e solo in Italia se ne contano almeno 14 molto diffusi (dalla a di agrumi alla t di timo) e 33 meno comuni (da quello di ailanto a quello di verga d’ora), tutti raccontati in un capitolo del libro. Mieli, allora, bottino di api che vivono in ambienti diversi (è possibile parlare di terroir, come si fa nel vino?, mi chiedo).

Le domande sono tante (il miele è un prodotto animale, come ritengono i vegani, o vegetale?), le risposte articolate. Qui alcune «massime», tra quelle che possiamo ricavare dal dialogo con Paolo Fontana (entomologo e apicoltore, presidente di World Biodiversity Association), Diego Pagani (apicoltore biologico e presidente Conapi), Francesco Panella (apicoltore nomade tra i promotori della coalizione per un’agricoltura senza insetticidi sistemici, presidente dell’associazione Bee Life), Andrea Paternoster (apicoltore con 1.200 alveari), Lucia Piana (biologa) e Claudio Porrini (dottore in Agraria all’Università di Bologna).

Se in un prato «sistemo un alveare, ne sistemo 20 o 500, per le api sicuramente si ridurrà il cibo disponibile pro capite, ma il prato non subirà nessun danno. Non c’è modo, per l’apicoltura (a differenza di altri tipi di allevamento) di danneggiare l’ambiente»; «l’apicoltura è una produzione sistemica, quindi il benessere animale è la risultante di una serie di attenzioni. Lavoro in biologico, riuscendo a produrre miele e propoli completamente privi di residui, ma per riuscirci ogni tanto devo letteralmente scappare assieme alle mie api. Il nomadismo una volta era una scelta produttiva, oggi molto spesso diventa una necessità. Bisognerebbe chiamarlo nomadismo di difesa», come quello che porta le arnie in ambito urbano, dove «le condizioni sono spesso favorevoli»: fonti d’acqua, monocolture lontane, alberi che non vengono perché non devono fare reddito o per il divieto di usare prodotti chimici sul verde pubblico. Ci avevate mai pensato?