Il mondo del lavoro povero di autonomi e dipendenti
La flat tax dei ricchi Le misure fiscali a favore delle partite Iva dovrebbero essere ben altre, dal momento che in Italia la percentuale di lavoratori poveri è particolarmente elevata tra gli autonomi, caratterizzati da bassi compensi, discontinuità nel rapporto di lavoro, misure di welfare che segmentano ed escludono
La flat tax dei ricchi Le misure fiscali a favore delle partite Iva dovrebbero essere ben altre, dal momento che in Italia la percentuale di lavoratori poveri è particolarmente elevata tra gli autonomi, caratterizzati da bassi compensi, discontinuità nel rapporto di lavoro, misure di welfare che segmentano ed escludono
A chi parla l’estensione della flat tax a 85 mila euro per autonomi e partite Iva? La prevista flat tax al 15% interesserebbe le partite Iva fino a 85 mila euro di fatturato.
Un insieme di lavoratori che corrispondono a circa centomila contribuenti su un totale di tre milioni e settecentomila autonomi. Il vantaggio fiscale della misura, quindi, è di circa 7-8.000 euro per il 2.7% delle partite Iva. Ne scrive “Acta”, l’Associazione che mette in rete i free-lance.
Le misure fiscali a favore delle partite Iva dovrebbero essere ben altre, dal momento che in Italia la percentuale di lavoratori poveri è particolarmente elevata tra gli autonomi, caratterizzati da bassi compensi, discontinuità nel rapporto di lavoro, misure di welfare che segmentano ed escludono. Elementi che si aggiungono a una pubblica amministrazione che usa gli autonomi al massimo ribasso, a un sistema produttivo che non valorizza il segmento ad alta intensità di conoscenza che parte del lavoro autonomo rappresenta e allo scarso riconoscimento dei free lance come lavoratori non salariati (e non come imprese).
Il lavoro autonomo italiano è un magma, dai contorni indefiniti e che ha conosciuto una marcata evoluzione. A una maggioranza di coltivatori diretti, piccoli commercianti e artigiani in forte diminuzione si è progressivamente affiancato un numero in costante crescita di prestatori d’opera individuali, privi di collaboratori, creati dalla rivoluzione informatica e dallo sviluppo dell’economia digitale. Sergio Bologna e Andrea Fumagalli hanno coniato la fortunata etichetta di “lavoro autonomo di seconda generazione”. La crescita di questa componente è favorita anche, soprattutto in Italia, dal proliferare di rapporti di lavoro precari e occasionali e dall’esasperata ricerca di flessibilità della forza lavoro da parte delle imprese.
In questo insieme variegato, Acta sottolinea che le nuove misure fiscali premieranno solo i benestanti e amplieranno lo svantaggio dei lavoratori a basso reddito, sia rispetto agli autonomi a reddito medio-alto, sia nei confronti dei dipendenti con pari reddito. Insomma: prima chi ha di più. Le misure fiscali previste dal governo riflettono senza ricomporla la diseguaglianza interna al mondo degli autonomi e utilizzano la leva fiscale non per “rinsaldare” il patto sociale, ma in modo segmentato e particolaristico per mandare dei segnali a specifici gruppi, come scritto su questo giornale da Gaetano Lamanna.
Nel caso, non si tratta solo di contrapposizione tra dipendenti e autonomi, ma di scelte che privilegiano i lavoratori ad alto reddito a quelli a basso reddito, in modo trasversale alla distinzione autonomi-dipendenti. Una sorta di via italiana e corporativa alla trickle-down economics: abbassare le tasse per chi ha di più e tutti ne beneficeranno.
Qui, in questa contraddizione del resto tipica della “Melonomics”, potrebbe inserirsi una proposta alternativa che invece di contrapporre autonomi a dipendenti, difenda con misure universalistiche e non corporative i lavoratori poveri, che tra gli autonomi non mancano. Una proposta “pro labour” si dovrebbe quindi dare l’obiettivo di combattere la frammentazione e costruire un sistema fiscale e assistenziale omogeneo, che intervenga a tutela delle situazioni di difficoltà, indipendentemente dal settore e dalla professione.
Nella vita lavorativa moderna capita sempre più spesso che le carriere passino da situazioni di lavoro subordinato a situazioni di lavoro autonomo nelle sue diverse articolazioni e viceversa. Occorrerebbe omogeneizzare il trattamento per malattia, maternità e disoccupazione prevedendo l’estensione dell’indennità di maternità minima, attualmente esistente per coltivatrici dirette, commercianti, artigiane, professioniste con ordini, a tutte le gestioni previdenziali, compresa la Gestione Separata.
Ci sarebbe poi spazio per un’azione politica volta a uniformare il trattamento della malattia e introdurre una misura unica di sostegno al reddito, sostitutiva degli attuali strumenti e misure. Obiettivi comuni che consentirebbero ai lavoratori “non standard” di accedere alle tutele fondamentali che uno Stato dovrebbe assicurare a tutti i cittadini indipendentemente dal loro status occupazionale. Lo spazio per le proposte nella fiscalità e nell’assistenza, insomma, non manca. Quel che scarseggia, invece, è una piattaforma politica unitaria di sinistra che non insegua la destra sul terreno delle misure corporative e segmentate, ma sia in grado di proporre misure basate sull’equità e sull’universalismo.
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