Una presenza abituale, tale da costituire per gli umani una seconda natura. Le macchine, tanto più se considerate intelligenti, ormai svolgono attività un tempo prerogativa di uomini e donne. Non solo si applicano su lavori manuali faticosi e talvolta pericolosi, ma compiono anche operazioni considerate cognitive, intellettuali. E le fanno modificando la realtà. Sono cioè macchine intelligenti e dunque performative, mettendo in discussione il dominio della specie umana sulla realtà.

Il panorama dal quale in molti partono è quello più facile: l’automazione riuscirà a favorire una crescita di posti di lavoro superiore a quelli cancellati? E poi: le machine learning oltre a modificare l’organizzazione e i contenuti del lavoro, sono da considerare scosse telluriche nei rapporti di potere tra Stati e economie nazionali (la Cina, ma anche la Corea del Sud, l’india). Allo stesso tempo, mette a soqquadro gli ordinamenti politici, i diritti individuali (la privacy, la proprietà sui propri dati personali). Temi affrontati nell’ultimo numero della rivista Aspenia, pubblicata dall’Aspen Institute (La politica dell’algoritmo, pp. 220, euro 12).

LA RIVISTA MUOVE dalla convinzione che l’automazione e l’intelligenza artificiale costituiscano una evoluzione positiva per le società mondiale. E per il capitalismo. Il problema, semmai, è gestire l’attuale transizione, costellata da vertiginose ascese di economie «periferiche» e da altrettanto vertiginose disuguaglianze sociali, povertà diffusa, precarietà lavorativa e esistenziale come condizione generalizzata. Basta dunque un po’ di redistribuzione del reddito e di politiche attive del lavoro, si legge su Politica dell’algoritmo. Un buon senso condivisibile, ma che lascia le cose così come sono.

Non è però questo l’orizzonte che inquieta il filosofo francese Eric Sadin, noto per il pamphlet sulla Siliconizzazione del mondo (Einaudi). Se lì l’oggetto di studio era la pervasività delle macchine nella vita sociale, in questo Critica della ragione artificiale (Luiss University Press, pp. 198, euro 21) l’attenzione investe lo statuto stesso delle macchine informatiche, la loro capacità, appunto, performativa alla quale si aggiunge la crescente e conseguita «autonomia» dai loro costruttori umani. L’intelligenza artificiale è quindi da considerare una vera e propria filosofia che spiega le cose del mondo, rivendicando a sé la capacità di modificare il presente e, di conseguenza, plasmare il futuro.

Eric Sadin non segue il facile sentiero di chi considera le macchine un pericolo per l’umanità, non paventa un prossimo futuro dove le macchine mettono in campo la loro intelligenza da alveare riservandosi il diritto di muovere guerra agli umani nel caso si manifestasse incompatibilità tra i loro bisogni riproduttivi – l’energia e i materiali per la loro costruzione – e quelli necessari alla vita degli individui. Tesi che accomuna studiosi, ingegneri e filosofi oltreoceano, come quella sviluppata da James Barrat (La nostra invenzione finale, Nutrimenti) o da Nick Bostrom (Superintelligenza, Bollati Boringhieri). E respinge con forza le suggestioni del transumanesimo e della singolarità tecnologica che vedono – come scrive in La singolarità tecnologica (Apogeo) – l’ingegnere a capo della sezione sulla Deep Mind di Google Raymond Kurzweil, l’agente salvifico per sopperisce ai limiti fisici della razza umana, trasferendo nelle reti neuronali digitali e nei microprocessori l’esperienza e la storia umana, sottraendola all’inevitabile estinzione.

Sadin, giustamente, si inerpica su un altro sentiero, difficile da percorrere, perché in bilico tra un egemonico determinismo tecnologico (l’anarco-capitalismo della Silicon Valley) e la difesa dell’umano in quanto riflesso e opera di una volontà divina. La sua Critica della ragione artificiale si poggia su una concezione delle macchine come manufatto: non solo eseguono meglio degli umani alcune operazioni – manuali e cognitive – ma, attraverso l’ambiente digitale, esprimono una potenza alethica, cioè hanno la capacità di ridefinire i criteri del vero e del falso, secondo le linee guida del verosimile.

UNA COSA, una affermazione, una realtà non è vera o falsa, secondo i teorici del digitale e dell’intelligenza artificiale, bensì può essere valutata in base ai criteri del verosimile (può essere sia falsa o vera): l’importante è che sia, appunto, verosimile. Uno sguardo disincantato sulla pervasività della Rete non può che notare la consonanza, meglio le assonanze tra il concetto di verosimile e di postverità.
A questa constatazione Sadin aggiunge il fatto che le macchine – e i programmi informatici che le fanno funzionare – hanno sempre più una connotazione antropomorfica, assumendo la morfologia umana e compiendo azioni che «sembrano» fatte dagli umani, con i loro tic, incertezze, dubbi e arroganze.

IL CYBORG (fatto di silicio, acciaio e il materiale sintetico che lo ricopre) è paradigmatico. A oltre due decenni dalla sua pubblicazione, bisognerebbe compiere una rilettura critica del noto Manifesto Cyborg di Donna Haraway dove la filosofa statunitense già metteva a fuoco questa pregnanza del verosimile e delle capacità performative delle macchine nel modificare la realtà presente costruendo un futuro che avrebbe riprodotto rafforzandoli, i rapporti sociali e di potere della società capitalistica.

Eric Sadin tuttavia rimane sulla soglia della critica al cyborg. Nel saggio ce ne sono echi, laddove afferma perentoriamente che la ragione artificiale è fondata su una continua negoziazione tra opzioni diversi e confliggenti tra loro, ma che il campo operativo viene definito dalle macchine, meglio dagli algoritmi che presiedono il loro funzionamento come un apriori intangibile.

Più che una critica al capitalismo delle piattaforme o della sorveglianza o del postfordismo, il filosofo francese è dunque interessato a sondare lo statuto di ciò che definisce «tecnologie della perfezione» (machine learning), capaci di imporre l’esattezza come criterio guida nella valutazione dell’operato di un computer o di un programma informatico. È concentrato sulla analisi della «aletheia algoritmica», la potenza performativa del digitale, campo di indagine dato per scontato e che produce rigetti e adesioni fideistiche al limite del religioso.

LA SUA ANALISI è dunque propedeutica alla presa di consapevolezza di un mondo che la matematica Hannah Fry ritiene la naturale evoluzione impressa al corso degli eventi dagli umani, come prova a dimostrare nel suo saggio Hello World (Bollati Boringhieri, pp. 234, euro 24), un excursus di facile lettura sulla realtà digitale. Qui i problemi sono posti dalla pervasività delle macchine sempre più intelligenti e sono riassumibili nel rischio per la privacy che si manifesta con i Big Data, mentre la democrazia è intesa come la forma politica che garantisce la tenuta decisionale di un pubblico informato e consapevole. Non traspare nessun dubbio sul fatto che l’idea di un soggetto consapevole, informato e in grado di prendere decisioni indipendentemente dalle relazioni sociali nelle quali è immerso – gli umani sono pur sempre animali, esseri sociali – sia poco più che una favola spacciata per verità. E quando si imbatte in alcune contraddizioni – il razzismo codificato in codice informatico di alcuni software – le liquida come imprecisioni in via di correzione.

IL SUO SAGGIO APRE però le porte a un altro filone di analisi sul rapporto tra umani e macchine, quella riassunta da Paul Dumouchel e Luisa Damiano, due filosofi della scienza che provano a definire una vera e propria etica del robot. Come per i Golem, sono gli umani che definiscono il campo di azione delle macchine. Possono compiere azioni meravigliose o diventare strumenti di oppressione e di terrore – i Golem erano violenti e omicidi strumenti di vendetta e di riparazione a ingiustizie – che hanno bisogno di una sorta di decalogo del buon funzionamento. Il loro libro – Vivere con i robot, Raffaello Cortina, pp. 200, euro 19 – è un tentativo (argomentato) per definire cosa possano e non possano fare i robot. I limiti sono come un vincolo, aperto tuttavia a revisioni in base a oggettive necessità economico produttive, nel corso del tempo.

Più o meno duttili, ma pur sempre vincolanti sono le leggi della robotica di uno scrittore prolifico e immaginifico come è stato Isaac Asimov. L’etica dei robot non è materia effimera. La recente querelle sulla necessità di tassare o meno i robot per la disoccupazione che creano è certo una boutade, buona per salvare l’anima di qualche capitalista di ventura colpito dall’illuminazione filantropica sulla strada del saccheggio della ricchezza comune (Bill Gates, ad esempio). Ma dietro c’è la pervasività appunto della seconda natura digitale della realtà. Fa bene, dunque, Eric Sadin a prospettare una critica della ragione artificiale. Alla quale non può che essere accompagnata una critica dell’economia politica dell’intelligenza artificiale, cioè di quel «sistema di macchine intelligenti» che manifestano una automatizzata capacità performativa di modificare la realtà.