«Mentre crescevo e fino agli anni settanta, quando vivevo a Los Angeles, i loghi degli Studios erano una parte importante nel rituale dell’andare al cinema – i simboli di Paramount, MGM, Warner Brothers, RKO… Annunciavano quello che stavi per vedere. Tra tutti, quello della Republic era il più ’olimpico’ ed evocativo – con l’aquila, le nuvole, la montagna. Era un’immagine che fin da subito ti portava in un altro mondo, di sogno. Per noi filmmaker, era il simbolo di un’esperienza ancora più speciale perché sapevamo che i registi – costretti com’erano a lavorare in fretta, con budget ridottissimi e spesso su sceneggiature decisamente bizzarre- dovevano per forza essere più inventivi, osare di più».

Martin Scorsese sta girando un film da oltre 125 milioni di dollari, The Irishman, una produzione Netflix la cui uscita è prevista per il 2019, forse nelle sale forse no – almeno a sentire i portavoce della piattaforma di Ted Sarandos. Ma recentemente il regista newyorkese si è concesso una breve pausa dalla lavorazione per presentare un progetto a cui teneva da tempo. «Republic Rediscovered: New Restorations From Paramount Pictures», organizzata dal Museum of Modern Art e curata dallo stesso Scorsese è la bellissima retrospettiva dedicata a una delle più grandi case hollywoodiane di serie B, fondata nel 1935 dal proprietario di un laboratorio di sviluppo e stampa, Herbert J. Yates, e nota specialmente per la sua produzione western (i cowboy canterini di Gene Autry e Roy Rogers, i primi John Wayne, ma anche Johnny Guitar e Rio Bravo) e, negli anni trenta e quaranta, i suoi serial, spesso diretti da un maestro del genere come William Witney .

«La Republic era conosciuta come uno degli studios della poverty row, ma per noi era come la serie A: quello che i suoi film non avevano in risorse e prestigio era compensato in inventiva, sorpresa e, in certi casi, vera e propria sperimentazione del linguaggio», ha detto ancora Scorsese al pubblico del MoMA, inaugurando ufficialmente l’omaggio, realizzato in collaborazione con la Paramount, che nel 1994 ha ereditato l’archivio Republic da Aaron Spelling, preservato più di 800 film negli ultimi sette anni e prodotto il restauro di gran parte dei titoli della retrospettiva.

Scelto per l’apertura della retro è stato That Brennan Girl (1946), un sorprendente melodramma con Mona Freeman e James Dunne, il cui plot include un’associazione a delinquere madre/figlia, un giro di gangster di San Francisco e le vicissitudini di una giovanissima vedova di guerra a cui i servizi sociali portano via la figlia.
Il film è l’ultimo diretto da Alfred Santell, che prima di passare al lungometraggio, nel 1924, si era affermato realizzando two reelers comici per gli studi di Hal Roach. Oltre ad essere un’occasione per illuminare la linea estetica/produttiva dello Studio, la retrospettiva Republic è infatti anche un ottimo modo per scoprire registi originalissimi e meno conosciuti, come Santell o John Auer, autore del film che Scorsese ha scelto di presentare («non è un noir, non è un gangster movie: continua a cambiare registro, non si lascia classificare. Capimmo subito che era un oggetto speciale, di forte impatto emotivo, e un’ispirazione perché prova quanto talento artistico individuale possa emergere da pochissimo»), La città che non dorme, narrato in prima persona dalla città di Chicago e fotografato, in splendido bianco e nero, da John L. Russell, l’operatore di due più celebri produzioni Republic, Macbeth di Orson Welles e La luna sorge di Frank Borzage.

Sempre di Auer, la serie include il bellissimo melodramma quasi-gotico con Vera Ralston The Flame (1947) e la lisergica fantasia tropicale Il sortilegio delle Amazzoni (1948), con Ralston nei panni di una misteriosa dea silvana.
Ancora tra gli autori della Republic da scoprire è Joseph Kane, molto prolifico e considerato il miglior regista di western della scuderia, di cui si è visto il noir elettrico I gangster non perdonano (1956), su copione del romanziere/sceneggiatore Riley W, R. Burnett (Piccolo Cesare) e girato utilizzando il procedimento di fotografia a colori ideato appositamente per la Republic dal laboratorio di Yates, il Trucolor. Alternativa meno costosa e più liberamente pittorica del Technicolor, il Trucolor è noto per i suoi toni blu e arancio -ideali per i deserti e i grandi cieli della Frontiera, che contraddistinguono non a caso i western di Roy Rogers, le immagini fiammeggianti di Johnny Guitar e il western psico-religioso Inferno di fuoco (R. G. Springsteen, 1949) con Mary Windsor nei panni della ragazza di saloon meno spregiudicata di quello che sembra.

La retrospettiva, che include anche titoli di autori più conosciuti come Allan Dwan (Fiore selvaggio e The Inside Story), Lewis Milestone (La valle lunga), Frank Borzage (Non ti appartengo più) e – secondo Scorsese – il regista Republic preferito di Bertrand Tavernier e Quentin Tarantino, William Witney (Trigger Jr e Uno sconosciuto alla mia porta), è divisa in due parti. La prima si è conclusa il 15 febbraio, la seconda inizierà a partire dal 23 agosto.