In Fiera, la ritroviamo nello stand di Topipittori, con la bellissima storia sulle paure e i momenti di coraggio che aleggiano intorno a La bambina e il gatto di Ingrid Bachér, a cui lei ha prestato le sue originali illustrazioni. Poi, è la guest star della copertina dell’Illustrators Annual (Corraini editore): l’ouverture del catalogo della mostra di Bologna 2017 è affidato ai suoi colori e alla sua fantasia (ha anche una personale tutta dedicata alle sue tavole). Infine, è sempre lei l’autrice delle Fiabe a fumetti, che Quodlibet ha mandato in stampa insieme alla libreria Ottimomassimo: una rivisitazione ironica dell’immaginario dei fratelli Grimm.
Rotraut Susanne Berner, vincitrice del Premio Internazionale Andersen 2016, è senz’altro una figura di spicco di questa edizione di Bologna Children’s Book Fair. Nata a Stoccarda nel 1948, ha studiato graphic design a Monaco (dove vive). Ha lavorato anche insieme a Hans Magnus Enzensberger (The number Devil) e sta portando avanti la collana editoriale Die Tollen Hefte, fondata dal marito Armin Abmeier, ora scomparso.

Come possiamo descrivere la nascita del «Wimmelbuch»? Condividono qualcosa dell’immaginario fiammingo?
Si tratta di un genere che in Germania è conosciuto dagli anni 70. I libri di Ali Mitgutsch esistono ancora, sono ormai dei classici e seguono, come anche i miei Wimmelbücher, il principio delle grandi pagine doppie nelle quali succedono varie cose. Sì, certamente traggono ispirazione da dipinti nei quali c’è molto da scoprire e che conosciamo dai musei, come le opere di Bosch o di Brueghel. Ma nei miei libri il focus è sulla narrazione. È questa la novità. Fin dall’inizio, i cinque albi hanno costituito un progetto basato sull’idea di osservare un piccolo «mondo» cioè una microcittà con i suoi abitanti per un anno intero. Il libro come mezzo si presta molto a questa idea – ogni volta che voltiamo pagina troviamo che è passato del tempo e che siamo in un posto diverso. Le storie «a immagini» possiedono un fascino tutto loro. Quando ero molto piccola «leggevo» – senza capire – le illustrazioni delle storie dell’Antico Testamento, così come quelle disegnate da Wilhelm Busch, che non erano state scritte per bambini.

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Come è nata la sua passione per l’illustrazione?
Sono cresciuta in un periodo in cui era normale disegnare e leggere. I libri hanno sempre catturato il mio interesse, ispirandomi. Quelli che da bambina guardavo e riguardavo continuamente, e che poi leggevo, erano tutti illustrati. Nella vita quotidiana, per le strade, le immagini avevano un effetto magico su di me. È stato naturale occuparmi di libri anche nella mia professione.

Lei ha combinato insieme due linguaggi «classici»: quello delle fiabe con i fumetti. Può raccontarci come è nata questa operazione?
È interessante il paragone del mio lavoro con quello di una traduttrice. Io direi piuttosto che si tratta di una forma di interpretazione. Ho illustrato alcune fiabe per una rivista e mi sono lanciata nell’esperimento di volerle raccontare in maniera concisa, quasi esclusivamente con le immagini. In cambio, mi sono potuta prendere molte libertà. In verità, però, mi sento legata ai testi antichi e molto belli dei fratelli Grimm: il loro suono mi è familiare dai giorni della mia infanzia. I fumetti sono una specie di satira che in nessun modo può equivalere alla lettura vera di una fiaba.

Oggi i bambini sono rapiti da internet, videogiochi e cellulari. Come pensa di catturare la loro attenzione?
Sin da quando mi ricordo si profetizza e si chiacchiera del tramonto del libro come mezzo di comunicazione. Ma non è mai accaduto. Uno dei suoi vantaggi è quello di essere visibile e tangibile. Un prodotto virtuale non lo si può amare, non lo si può possedere, non ci guarda come un libro ci osserva dallo scaffale: è invisibile. È un aspetto importante per i bambini piccoli: appropriarsi del loro mondo, prendere in mano le cose autonomamente, guardarle ripetutamente. I libri, più sono belli e interessanti e più continueranno a sopravvivere, numerosi e per molto tempo.

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A quali romanzi ha affidato la sua «educazione sentimentale»?
Da bambina leggevo i miei libri molte volte. E prendevo in prestito dalla biblioteca tutto quello che riuscivo ad avere. In quei tempi, negli anni ’50 e ’60, la letteratura per l’infanzia era poco emancipata. Quindi, oltre alla letteratura per ragazzi che spesso era moralista e noiosa, ho cominciato a leggere presto i classici e i romanzi per adulti. Alcuni, che ritenevo particolarmente interessanti, erano vietati e li leggevo di nascosto. Credo che non possa esistere niente di meglio che scoprire il mondo infinito della letteratura saltando «di palo in frasca». E io l’ho fatto: ho letto Shakespeare ed Enid Blyton, i fumetti proibiti e le fiabe delle Mille e una notte. I romanzi di formazione più importanti sono stati Heidi di Johanna Spyri, Robinson Crusoe,i racconti di Astrid Lindgren, una biografia per bambini di Wolfgang Amadeus Mozart. Più tardi, è arrivato Il diario di Anna Frank, un libro su Helen Keller, Vita di un perdigiorno di Eichendorff e anche Tarda estate di Adalbert Stifter.

La letteratura per ragazzi è considerata un «genere» a sé. Non pensa sia riduttivo?
Perché non lo dovrebbe essere? La letteratura per l’infanzia è un genere letterario a sé stante – quello che conta è che possa misurarsi con tutti i soliti criteri qualitativi. Un adulto non leggerà volontariamente e con passione un libro illustrato con le pagine di cartone e, allo stesso modo, un bambino di tre anni non vorrà cimentarsi con l’Ulisse di Joyce. Non sono certa, invece, che sia necessario il libro per ragazzi (romanzo per teenager) come lo troviamo oggi sul mercato. Spesso si tratta soltanto di letteratura «tematica» e di quella non ho una grande opinione. È un peccato che, per il grande ambito della letteratura per l’infanzia, ci sia poca disponibilità alla vera critica. È importante non annoiare i lettori e aprire loro una porta verso un mondo magnifico.