Il pianista tal de tali suonerà tutti i giorni dalle 16.30 alle 18.30. Il messaggio su una lavagnetta suona quasi come una condanna tra il banco etnico-industriale e un nuovo modello di automobile nel sottopassaggio che sbuca sulla Rotonda. L’avevano pensata come il luogo popolare per i vacanzieri a Locarno, finti resort marocchini e cibi dal mondo (altroché Expo!) a prezzi accessibili, invece con la crescita del franco sono diventati carissimi pure là mentre i vacanzieri (specie tedeschi) sono spariti. I titoli dei giornali locali lamentano la crisi del turismo, e del resto: chi mai verrebbe in vacanza in Svizzera dove le cose costano tre o quattro volte in più degli altri Paesi europei? Anche noi compriamo oltreconfine, cioè in Italia, ammette la simpatica ragazza del banco dei gelati, tutti bio, tutti naturali, quasi allo stesso prezzo che da noi.

Il Festival però funziona e sfida il franco «impazzito», quest’anno complice una carrellata di star hollywoodiane e d’autore – da Edward Norton a Andy Garcia, Cimino, la magnifica Bulle Ogier – ha vinto ogni sera sulla Piazza con lo schermo più grande d’Europa la sua scommessa da «tutto esaurito». Al tempo stesso qui si dà appuntamento la comunità folta e vivace di programmatori, critici, addetti ai lavori più di tendenza, e di quei cineasti, nomi classici e nuovi filmmaker a cui le sale di Locarno danno l’occasione più bella: il confronto per i loro film con un pubblico «vero» e numeroso che arriva da tutti i cantoni svizzeri, cosa che manca in altri festival di categoria «big» la Mostra di Venezia per prima.

L’elettricità con cui è stato accolto Zulawski, tornato al cinema dopo quindici anni con Cosmos – di cui parleremo – è per un regista già un passo importante nelle molte verifiche incerte che attendono specie un cinema libero e lontano dalle mode dei tempi come è il suo. Lo stesso vale per la «riscoperta» di un maestro quale è Marlen Khutsiev, censurato nella Russia sovietica e messo al bando in quella putiniana da registi di potere tipo Mikhalkov, di cui si stanno scoprendo i film. Inattuale se così vogliamo dire è anche il mondo alla rovescia di Otar Iosseliani in gara con Chant d’hiver, commedia ironica sulla Storia, e sugli esseri umani che la abitano, sospesi tra la ghigliottina di Robespierre e le espulsioni dei migranti di oggi.

Quel marchese decapitato «magrittianamente» con la pipa in bocca lo ritroviamo in un esercito che battezza, cappellano tatuato, soldati stupratori e ladri. Somiglia però anche al clochard schiacciato da un rullo compressore come il personaggio di un cartoon, e al guardiano dell’edificio assai colto che ai bimbi al pomeriggio spiega Marat e Il Terrore. Lì si incrociano altre figure che sembrano unite da sotterranee affinità, il nobile che vive in miseria nel suo castello da cui verrà presto espulso – è Enrico Ghezzi – uno strano tipo che colleziona teschi, e che sembra avere condiviso col custode anche un amore lontano, la nobile signora ora fragile e malata che ripete il rito del the tra medici e camerieri premurosi. Un musicista che dorme in auto, un uomo che raccoglie mattoni per costruirsi la sua casetta, la figlia del nobile decaduto costretta a prostituirsi col potente di turno al cui servizio troviamo gli amanti fuggiti dalla guerra.

E poi ci sono le giovanissime ladre che sfrecciano sui pattini, il loro amico si è innamorato proprio della figlia del poliziotto che vuole ripulire le strade, dare un nuovo ordine, e perseguita spostandoli di continuo i migranti. Le comiche, il cinema muto, Keaton, il piacere intelligente del paradosso e quei detour poetici che spalancano all’improvviso porte sui muri della metropoli, rivelando giardini che sembrano a volte un Eden, altre sono invece morti e desolati. In questo Canto d’inverno, punteggiato di apparizioni e da legami antichi entra forte il nostro tempo con la forma poetica (e politica) dello sguardo di Iosseliani in cui la realtà appare sempre, o almeno in forma privilegiata altrove, in segni sfuggenti o come un mondo allo specchio. Appunto.

Ecco dunque che seguendo i suoi sentieri e i suoi detour nelle strade di una Parigi a cui regala una seduzione forse scomparsa, entriamo nell’Europa che vincente, persecutoria, conformista, delle economie forti e della tolleranza zero, delle ipocrisie di quote di migranti e delle false riprese, di una cultura ovvia, noiosamente formattata, di un controllo in cui la solidarietà appare come una forma temibile di resistenza. E tutto ció dentro a un’immagine lieve, libera, personalissimo distillato di umorismo e di ironia che unisce mondi e spazi del cuore. Le strade ripulite somigliano all’ordine del Terrore anche se oggi le teste sono di cera e le ghigliottine servono a tagliare i legumi.

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Il bosco a cui fa riferimento il titolo del nuovo, e molto bello, film di Claire Simon Le bois dont les reves sont fait, è quello di Vincennes, il grande parco di Parigi che la regista filma in diverse stagione narrandone la vita attraverso quelle dei suoi «abitanti». Che sono ciclisti del fine settimana o comunità che si ritrovano per la festa insieme, come i cambogiani con le loro storie di esilio in fuga dalla dittatura dei khmer rossi. E quella donna sorride quando racconta i ricordi di infanzia, nella giungla dove i khmer li avevano deportati, e dove però nonostante tutto si sentiva protetta. Lo stesso sentimento che prova lì, nel parco, i cui odori di legna e di foglie sono le sue madeleine di memoria. In alcuni sentieri c’è chi cerca un amante, ritrovo un tempo della comunità gay – «ci venivo quando avevo davvero il bisogno di scopare» dice uno – appaiono adesso abbandonati per la comodità di siti e applicazioni smartphone che portano l’appuntamento subito in casa. Eppure quella ricerca racconta ancora l’occasionale guida, aveva qualcosa di eccitante e di fisico irripetibile nella virtualità.

La ragazza bionda invece si prostituisce, spiega diretta che no, la sua famiglia non lo ha mai saputo, ma come vivere altrimenti? Va lì diverse ore al giorno, il suo uomo non è geloso, alla figlioletta non dice nulla… È pratico, veloce, lo fa in piedi, per i clienti meglio così che un’amante nessuna gelosia delle mogli né inviti a cena. Quando è libera invece al parco ci va con la bambina. Un’altra donna vive in tenda con il compagno, sta bene là, l’appartamento non lo sopportava più e quando piove la tenda è grande e li accoglie.

Simon costruisce lentamente un universo in cui le storie si rincorrono e la dimensione «parallela» di questo luogo, altra rispetto alla metropoli, natura, verde, dove Deleuze teneva le sue lezioni di cui la regista cerca le tracce, appare anch’essa come u mondo allo specchio. Sono le traiettorie della nostra società che si incontrano, si sfiorano a volte, in uno spazio che delinea un «cosmo» e non solo per la sua estensione. L’alterità che ci ricorda la voce di Delueze si manifesta nelle sue diverse declinazioni, nelle sue economie e dei ruoli, nel sesso e nell’incontro, nella ricerca di una zona libera e nei riti del divertimento.
Penso al Sacro Gra (di Rosi) quello che fa la differenza nel film di Simon è che la regista non si nasconde, è dentro all’inquadratura con la sua voce, le sue domande, anche lei in questo mondo pur senza esserne parte, alterità a sua volta e sua narratrice. La sfida del cinema.