“Quando abbiamo cominciato – dice al manifesto Silvio Caccia Bava – c’era una sintonia magnifica tra movimenti e partito, molti di noi pensavano che con la vittoria elettorale del 2002 il cambiamento sarebbe stato strutturato, ma non è andata così. E qualche anno dopo sono uscito dal Pt”. Silvio, sociologo e analista politico, è direttore di Le Monde diplomatique del Brasile, e fa parte dell’Instituto Polis, un organismo di Studi, formazione e assistenza nelle politiche sociali. Il 10 febbraio del 1980 è stato tra i fondatori del Partido dos Trabalhadores (Pt).

La dittatura militare, salita al potere con il golpe del 1964 e durata fino al 1985, “era nella sua fase finale e doveva affrontare una forte opposizione proveniente dai movimenti politici e sociali spinti dalla crisi del modello economico”. Una parte consistente della sinistra tradizionale era stata eliminata o si era progressivamente frammentata, e si era così aperto spazio per una nuova sinistra che rappresentasse la classe operaia emersa con lo sviluppo economico del post-64. Una nuova militanza che, nello scontro diretto con la destra e con il capitale, avvertì l’esigenza di un proprio partito, il Pt, “sorto per superare i limiti delle formazioni tradizionali”. Una «felice combinazione fra le battaglie istituzionali e la partecipazione dei movimenti e delle lotte sociali, tese a trasformare nel profondo la società brasiliana».

Nel Pt confluirono principalmente tre filoni: la sinistra organizzata, il nuovo sindacalismo protagonista dei grandi scioperi degli anni ’70 e ’80 e i cristiani di base, soprattutto quelli legati alla Teologia della liberazione. “Allora – racconta Silvio – lavoravo con loro per alfabetizzare e organizzare le comunità dei poveri nelle periferie di San Paolo e con i gruppi di operai in fabbrica per facilitare la discussione con il sindacato ufficiale”. Far politica, allora, poteva costare caro. “Sono stato interrogato diverse volte – ricorda Silvio – ma per fortuna non ho subito il carcere e la tortura”.

Il peso della dittatura segna ancora il presente del Brasile a cinquant’anni dal colpo di stato. “Ieri come oggi – dice l’analista -, l’interesse degli Stati uniti per il nostro grande paese è proporzionato all’importanza che il Brasile riveste nel continente latinoamericano. Gli Usa avevano approvato il golpe prima che venisse realizzato. E due presidenti, in carica nel periodo precedente il colpo di stato, sono morti in seguito in circostanze sospette per evitare che potessero ripresentarsi come alternativa. Juscelino Kubitschek de Oliveira è rimasto ucciso in uno strano incidente stradale nel ’76. E João Goulart è molto probabilmente stato ammazzato nell’ambito dell’operazione Condor, nello stesso anno.

La transizione è stata guidata dalle stesse élite economiche legate al grande capitale internazionale. Ancora oggi, 11 famiglie, strettamente vincolate al capitale finanziario e agli interessi degli imprenditori locali controllano l’informazione in Brasile”. Tra il ’72 e il ’75, la dittatura militare scatenò una feroce repressione contro la guerriglia dell’Araguaia, nella zona amazzonica centrale: 70 contadini e oppositori, molti del Partito comunista, furono detenuti arbitrariamente, torturati e fatti scomparire. I familiari delle vittime chiedono l’apertura degli archivi delle Forze armate e si sono rivolti alla Corte interamericana dei diritti umani (Cidh), un’istanza autonoma dell’Organizzazione degli stati americani (Osa).

Nel 2010, la Cidh ha condannato lo stato brasiliano per quell’episodio e gli ha imposto un atto “di pubblico riconoscimento” per i fatti di Araguaia. Ma, ancora in questi giorni, i parenti degli scomparsi hanno accusato lo stato di aver ignorato la sentenza della Cidh: “Nonostante i grandi progressi ottenuti, la nostra è ancora una democrazia fragile – hanno dichiarato alla stampa – è rappresentativa, non è partecipativa, altrimenti avrebbe ascoltato il volere del popolo che l’ha eletta”. Spiega Caccia Bava: “Nel paese c’è un grosso dibattito, la stessa presidenta Dilma Rousseff, che ha sofferto il carcere durante la dittatura, ha compiuto qualche atto simbolico. Il problema è la legge d’amnistia, approvata nel ’79 e confermata nel 2010, che impedisce ai giudici di processare i repressori del regime. E ci sono forti interessi conservatori per lasciare le cose come stanno”.

La morsa del neoliberismo, che stringe il mondo nella decade degli anni ’80, arriva più tardi in Brasile, segnato in quegli anni da grandi lotte sociali e forte partecipazione politica. Così, nell’83 nasce la Central unica de los trabajadores (Cut) e, nell’84 il Moviminto de los trabajadores rurales sin tierra (Mst). E in quel periodo si conforma il Congresso che porterà alla costituzione del 1988, nella quale in parte si riflette quel momento di mobilitazione politica. Nell’89, con la prima elezione diretta alla presidenza della Repubblica dagli anni della dittatura, il candidato Luiz Inacio Lula da Silva, proposto dal Pt e appoggiato al secondo turno da tutte le forze di sinistra del paese, arriva a un passo della vittoria dal candidato dalla destra, Fernando Collor de Mello. Il Pt si consolida come principale polo di aggregazione politica del paese, ma la sconfitta elettorale favorisce l’ondata di politiche neoliberiste, già in corso nel resto del mondo.

Anche la sinistra brasiliana riflette la crisi del socialismo che porterà alla dissoluzione dell’Unione sovietica. Il Pt riformula i suoi concetti e ricalibra in senso moderato una nuova strategia. Nel 2002, porta Lula alla presidenza e alle legislative diventa il primo partito. Silvio non condivide la progressiva “istituzionalizzazione della politica, l’allontanamento dai movimenti sociali, la ricerca di maggioranze, alleanze e mediazioni elettorali a scapito dei principi e dell’organizzazione diretta. Non abbiamo capito – dice – l’influenza che le multinazionali hanno su qualunque governo nell’attuale sistema internazionale”.

Esce allora dal Pt e si dedica prevalentemente al lavoro di Polis. Anima dibattiti e conferenze sui soggetti della trasformazione sociale, scrive analisi sui movimenti di contestazione ai prossimi Mondiali di calcio del 21 giugno, che mettono alla prova la popolarità di Dilma Rousseff in vista delle presidenziali del 5 ottobre 2014. “Le conquiste ottenute in questi anni sono innegabili – precisa Silvio – un aumento del salario minimo e del potere d’acquisto dei più poveri, programmi rivolti ai piccoli produttori rurali e alla crescita del mercato interno, aumento dei posti di lavoro”.

Per il governo brasiliano, la Coppa del mondo è anche un’opportunità per le piccole e medie imprese, che impiegano grandi quantità di manodopera. E, per garantire che le condizioni di lavoro, il 15 maggio ha lanciato la campagna nazionale di sensibilizzazione sul lavoro dignitoso. Tuttavia, “il generale scollamento tra società e politica che interessa un po’ tutti i paesi s’incontra con la giusta critica alle disuguaglianze, retaggio delle politiche neoliberiste degli anni ’80. Le privatizzazioni dei servizi pubblici – dall’elettricità alle telecomunicazioni, ai trasporti – hanno trasformato la relazione tra stato e imprese private sempre più a favore di queste ultime, che li hanno acquistati a proprio vantaggio e non certo nell’interesse generale. I giovani, gli oltre 3 milioni di persone che sono scese in piazza nelle principali città del paese mostrano questa situazione insopportabile e protestano contro la mercificazione della vita. Protestano anche contro l’impunità della polizia e la repressione nelle favelas”.

Il Mondiale costerà ai contribuenti 11.000 milioni di dollari. Costi equivalenti a quelli degli stadi europei, dice il governo, in alcuni casi anche al di sotto. I nuovi stadi previsti dalla Francia per il campionato europeo del 2016, costerebbero ognuno mediamente 850 milioni di reais. In Brasile, il costo medio ha raggiunto 634 milioni di reais. Soldi che andrebbero spesi per casa e salute, dicono comunquei Senza tetto e i Senza terra, scesi di nuovo in piazza. Ai primi di maggio, il Mst ha occupato un terreno privato vicino a uno stadio della capitale insieme a 1.500 famiglie: per inaugurare la “Coppa del popolo”.

Diversi analisti denunciano, però, anche la mano dei poteri forti nelle tensioni in corso, l’azione di settori per nulla progressisti. Osserva Caccia Bava: “Non ho mai visto le agenzie di rating internazionali essere così d’accordo nell’attaccare il governo Dilma. Dicono che l’economia va male, mentre non è vero, è molto dinamica, come dimostra il crescente interesse degli investitori stranieri. E però gli imprenditori sostengono che le cose non vanno bene per cacciare il Pt dal governo perché, per quante concessioni abbia fatto al grande capitale, ha comunque attuato una politica di parziale ridistribuzione delle risorse».

Secondo i dati del governo, gli investimenti nel settore della Sanità nel periodo di preparazione del Mondiale sono più che raddoppiati, per un totale di 311,6 miliardi di reais. E quelli per l’Istruzione sono quasi triplicati dal 2007 al 2013, fino a raggiungere i 447 miliardi di reais. «Inoltre – aggiunge Silvio – è stata varata una buona legge per riprendere sovranità contro i giganti di internet. Il Brasile di Dilma sta costruendo interessanti alleanze politiche nei diversi blocchi regionali. E’ al centro di molte iniziative che mirano a creare un mercato unificato in Sudamerica con una diversa capacità di dialogo con gli altri blocchi del mondo multipolare.

Ma per il grande capitale, gli investimenti sociali sono in perdita: il suo obiettivo è quello di aprire sempre più strade ai mercati a proprio vantaggio e mettere la mano sulle nostre risorse”.