Più interdisciplinare, più femminista e multietnico, più tematico, più «instabile» (le sale dedicate alla collezione permanente verranno ripensate ogni tot mesi per condividere con il pubblico un numero maggiore dei tesori del museo), più ricco di asimmetrie e digressioni degli spazi ma soprattutto più grande, il nuovo Museum of Modern Art ha aperto le sue porte il 21 ottobre scorso, dopo una decina di giorni di assaggi/preview e ricevimenti attentamente calibrati per il mondo delle arti, la New York «che conta», la stampa e i membri.

LA PRIMA IMPRESSIONE, in risposta all’intervento di quattrocentocinquanta milioni di dollari che ha portato a un incremento degli spazi espositivi pari al 30%, ha beneficiato di una condizione ideale (chi scrive non la sperimentava da molti anni): gallerie semivuote, in cui potersi fermare a piacere davanti a un’opera, invertire le direzione del percorso (organizzato dal quinto piano, a scendere) per riconsiderarne un’altra, riscoprire un’opera amata in un contesto completamente diverso o riposarsi vicino a una delle grandi finestre verticali che – già introdotte dall’espansione firmata nel 2004 da Yoshio Taniguchi – ritagliano nei muri ampie fessure sulle cacofonie di materiali e cromatiche della città.
Riposarsi è necessario: una visita al nuovo Moma significa parecchie ore, si va dalle tre alle cinque (qui, diversamente da altri musei newyorkesi, il biglietto di 25 dollari vale solo un giorno). Lo spazio – la necessità di lasciar muovere più persone e più in fretta, vendere più ingressi, esporre più arte e tentare di ovviare al congestionamento che faceva passare la voglia di visitare questo tempio dell’arte contemporanea – è stato indubbiamente il motore primo dell’espansione grazie alla quale il Moma oggi controlla tutta la parte nord delle 53esima strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue, e una buona parte del lato sud della 54esima. «Il museo che ha divorato l’isolato» è non a caso il titolo che il New York Times ha utilizzato per illustrare le varie evoluzioni dei cantieri: dalla prima sede, nel 1939, con l’edificio modernista di Goodwin-Stone, seguita dalle aggiunte successive di Cesar Pelli, Philip Johnson e Taniguchi, fino a oggi. L’attuale espansione, ideata dallo studio architettonico Diller Scofidio + Renfro (già responsabili del nuovo Alice Tully Hall e di The Shed, il centro culturale dell’abominevole Hudson Yards), ha creato un ponte – attraverso la torre di uffici e appartamenti di Philip Johnson – tra le gallerie preesistenti e quelle nuove, ricavate a occidente, nel lotto un tempo occupato dal Museo of American Folklore.

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AL POSTO DI QUEL MUSEO curioso e molto amato, disegnato dallo studio newyorkese di Tod Williams e Billie Tsien – la cui demolizione è costata al Moma tonnellate di cattiva pubblicità – si staglia adesso un imponente grattacielo disegnato da Jean Nouvel, nei cui piani inferiori è ospitata la nuova parte del Moma. L’asettica, quasi minacciosa, torre di metallo e vetro scuro (sul cui esterno si legge a caratteri cubitali The Geffen Wing – l’ex socio di Spielberg e Katzenberg è diventato uno dei maggiori patron dell’arte di New York), certo non contraddice l’immagine corporate che il Moma ha sviluppato negli anni rispetto ad altre istituzioni artistiche della città.

ASETTICA, SPIETATA, avida, troppo monumentale, arrogante e miope – aggettivi buoni per una banca Wall Street – sono occasionalmente stati usati per descrivere la politica edilizia e culturale di questo museo. Fortunatamente, se quel corporate feeling non è del tutto assente dalla sua nuova incarnazione, la soluzione di Diller, Scofidio + Refro per la costruzione degli spazi interni è tutt’altro che oppressiva, giocata com’è su un’idea di viabilità efficace, di semplicità e duttilità di certi ambienti, e declinata nell’uso della luce, di materiali più chiari, leggeri, livelli multipli e una bella scala (occidentale) interna. Vincente anche la scelta di aprire una seconda entrata al museo sulla 54esima strada, in corrispondenza di quella della 53 esima, introducendo quindi luce e aria nell’altrimenti oppressivo – e sempre troppo affollato – atrio inferiore di Taniguchi. Oltre allo storico Sculpture Garden, il piano terreno include adesso un’altra nuova galleria aperta pure al pubblico non pagante.

INVOLUCRO A PARTE, una scommessa quasi più difficile era quella dei curatori, incaricati di traghettare al terzo millennio (e all’era della social justice) un’istituzione traboccante di capolavori che, anche presi individualmente, valgono pellegrinaggi; e ancor più traboccante di arte mai vista. A+, ovvero dieci e lode, è il voto che la critica del New York Times Roberta Smith (non sempre una sostenitrice) ha dato ai loro sforzi che – articolati in 27 sale – inseriscono piccole «isole» di mostre temporanee dentro alla poderosa spina dorsale della collezione permanente. Un terzo di ciò che vediamo esposto da quella collezione è destinato a ruotare ogni sei mesi.
Tra le priorità dei curatori, insieme a una riscrittura dell’arte moderna che prevedesse più spazio per artiste e per autrici e autori di altre etnie c’era quella di mischiare le diverse discipline. Oggetti di design e modellini architettonici appaiono quindi al fianco di quadri e sculture, e insieme a loro anche il cinema (Edison, Man Ray, Warhol, Cocteau..). Ogni tanto il mix è efficace ogni tanto meno. Ma funziona l’idea fondante di una curatela più mobile, curiosa, meno ossificata. Parte del successo del nuovo Moma sta proprio nella sua promessa.