Nicolas de Staël, “Paysage”, 1953

 

In una fotografia scattata in un esterno di campagna poco oltre la metà degli anni cinquanta si riconoscono al centro, seduto su una roccia, un sorridente Attilio Bertolucci; all’estrema sinistra un giovane e magrissimo Maurizio Calvesi e sull’altro lato Bernardo Bertolucci adolescente. A destra di Attilio, corrucciato, Francesco Arcangeli, e dietro al padre il piccolo Giuseppe Bertolucci; un po’ discosto, avvolto in un lungo cappotto, c’è Roberto Tassi, legato da un forte vincolo di amicizia sia a Bertolucci sia ad Arcangeli. La fotografia fu presa nella campagna attorno a Caprarola, dove Calvesi, divenuto amico di Arcangeli in occasione dalla mostra bolognese dei Carracci del 1956, cui entrambi collaborarono, aveva condotto gli ospiti a visitare il palazzo del Vignola e gli affreschi degli Zuccari in esso contenuti.
Tassi, di cui nell’anno appena passato ricorrevano il centenario della nascita e il venticinquennale della morte, faceva allora il medico, otorinolaringoiatra come il padre, che aveva lavorato per qualche tempo a Napoli. Roberto vi nacque e vi rimase sino ai tre anni, per muoversi poi a Parma, città d’origine dei suoi, dove avrebbe studiato medicina ed esercitato la professione fino ai sessant’anni inoltrati. La storia dell’arte fu quindi per Tassi un secondo mestiere, praticato dapprincipio en amateur, poi sempre più professionalmente come firma di riviste e giornali importanti («L’Approdo letterario», «Il Mondo», La Repubblica), come autore di mostre e di tanti saggi critici. Tassi era molto legato a Parma e alla campagna circostante, dove trascorreva più tempo possibile, vagando da viandante ottocentesco, in mezzo ai boschi, immerso nella natura, di cui, come un artista romantico, amava tutto, dal dettaglio minuto dei fili d’erba all’immensità mutevole dei cieli.
Parma è nel cuore della Padanìa, vasta regione tra l’Emilia e la Lombardia, amata da Bertolucci e Arcangeli, entrambi allievi di Roberto Longhi, colui che per primo aveva definito il perimetro stilistico e spirituale dell’arte padana, intesa come contraltare anticlassico dell’arte rinascimentale toscana, romana e veneziana. Longhi ne riconosceva le origini nella pittura bolognese del Trecento e la vedeva procedere, fra Quattro e Cinquecento, con Foppa, con i bresciani Moretto e Savoldo, con Lorenzo Lotto, con i cremonesi Campi, per giungere infine al Caravaggio e ai Carracci. Definiva così una linea dell’arte italiana non idealizzante, legata al rapporto empirico con la realtà, dotata di accenti talora vernacolari, basata sulla resa degli effetti della luce sulle persone e le cose. La caratterizzazione di una vasta area della nostra cultura figurativa nella chiave di un affettuoso rapporto con il mondo visibile fu, fra i tanti, un lascito fondamentale di Longhi ad Arcangeli e Tassi.
Il primo tramite del rapporto fra Longhi e Tassi fu Bertolucci; di Longhi Tassi si considerava un libero allievo (come disse in un’intervista a Bruno Quaranta), anzitutto perché condivideva l’idea longhiana che l’esercizio della critica dovesse situarsi «nel cuore di un’attività letteraria», benché la scrittura di Tassi, sottile ed elegante, fosse meno stilisticamente complessa, stratificata e virtuosistica di quella del maestro.
Al tempo della fotografia di Caprarola stava per cominciare (o era appena iniziata) l’avventura di «Palatina», la rivista di letteratura e arte la cui redazione aveva sede in via Girolamo Magnani 4, a casa di Tassi, che ne era il direttore. «Palatina» nacque nel 1957 grazie a un gruppo di uomini di cultura, quasi tutti parmigiani: tra gli altri Gian Carlo Artoni, Pietrino Bianchi, Giorgio Cusatelli, Francesco Squarcia, Giuseppe Tonna, poi, dal 1963, Mario Lavagetto. Le lettere fra Tassi e Bertolucci (recentemente pubblicate a cura di Elisa Donzelli) lasciano intendere che Attilio era considerato come il padre nobile della rivista; in realtà però, malgrado i suggerimenti, i consigli e gli incoraggiamenti, la guardava da lontano, e «Palatina» deve la compattezza del suo indirizzo culturale alla redazione e, soprattutto, all’attenta supervisione di Tassi. La rivista chiuse i battenti nel 1966 e dall’anno successivo Tassi entrò nella redazione di «Paragone» dove rimase sino alla morte, nel 1996. Longhi lo aveva chiamato a occuparsi delle questioni del contemporaneo nella sua rivista perché condivideva molte delle passioni di Tassi nell’arte del Novecento: Morandi, anzitutto, e poi Morlotti, Permeke, Sutherland, Cavaglieri, De Staël… Indizi di un gusto lontano dalla neoavanguardia, da cui Tassi aveva preso apertamente le distanze nel 1962, quando su «Palatina», introducendo il dibattito sulla mostra bolognese Nuove prospettive della pittura italiana, scriveva: «Poiché la cosa ci tocca troppo da vicino, dobbiamo apertamente dichiarare il nostro impegno per un moderno naturalismo».
In una lettera a Giuseppe Tonna, Tassi esprime il pensiero «che forse il senso del nostro lavoro o della nostra vita, è di esser umani dentro la natura». Dal paesaggio romantico a quello dei Luministi e dei pittori dello Hudson River (Church su tutti), da Courbet all’Impressionismo, da Soutine a Permeke, da Wols a Pollock, Tassi inseguiva una pittura che trovasse nella natura il luogo dell’anima e lo specchio del tempo. Il tempo delle stagioni, come rivela il titolo della raccolta dei suoi saggi parmigiani, dal Duomo fino a Latino Barilli: La corona di primule, fiori scolpiti con verità da Benedetto Antelami per cingere i capelli della Primavera. Ma in eguale misura lo appassionava la capacità dei maestri moderni che più amava di impastare la loro opera con il tempo vissuto, non lineare, fatto di memoria, di convivenza fra passato e presente. Un’idea proustiana del tempo che Tassi considerava come la maggior acquisizione dell’arte dell’Ottocento e del Novecento. La trovava ad esempio incarnata nell’arte di Pierre Bonnard, da lui considerata come pittura dell’«accumulo del tempo», nel legame fra tempo e natura in Monet, e poi in De Staël, Sutherland, Morlotti, Soutine.
Nelle sue predilezioni, da Courbet (il più amato fra gli artisti dell’Ottocento) a Morlotti e oltre, Tassi è ben dentro il solco della critica modernista. Si tratta però di un modernismo non ideologico: Tassi era lontano dal dogmatismo, anzitutto per indole, perché (come disse una volta Calvesi per distinguere Arcangeli da Longhi) era un critico intento più a cercare che a trovare. Il peculiare modernismo di Tassi consiste nel pensare che nell’arte prodotta dalla metà dell’Ottocento in poi, sino al Novecento inoltrato, la materia pittorica sia capace di significare se stessa, la sua pertinenza alla sfera dell’arte, senza per questo rinunciare a riferirsi, anche di lontano, al mondo visibile. L’essenza dell’arte moderna per Tassi risiede proprio nel potere dell’artista di mantenere vivo il potenziale allusivo e metaforico di cui i mezzi dell’arte si sono caricati nella loro lunga vicenda storica. Per questo Tassi poté amare dello stesso amore Antelami e Tiziano, Correggio e Morlotti, Courbet e Pollock. La sua critica non ha mai sconfinato nel formalismo: in un saggio del 1969 su Morlotti, riprendendo un pensiero di Caspar David Friedrich, scrisse: «L’arte pura non esiste». Per Tassi, nel processo creativo, contavano assai più le ragioni umane dell’opera di quelle, meno emozionanti, dell’arte per l’arte.