C’è tanta, e brutta, tattica in quello che abbiamo visto accadere alle frontiere della Danimarca in questi giorni. Il presidente del consiglio liberale Løkke Rasmussen ha con tutta evidenza cercato di apparire costretto dagli eventi. I vertici e i sindacati di polizia hanno chiaramente affermato di essere stati lasciati senza ordini politici dal governo, soli a gestire la situazione con la pura professionalità e buon senso. La ragione politica è evidente: proprio come nel passato governo di centrodestra (2001-2011) i liberal conservatori dipendono dalla non-sfiducia parlamentare dei nazionalpopulisti del Dansk Folkeparti.

La Danimarca è stato il primo paese nordico a lasciar entrare il populismo di destra nell’area di governo (ora è così anche ad Oslo ed Helsinki, o peggio) al fine di comprimere l’importanza delle trattative parlamentari col centrosinistra e introdurre (anche qui come fosse un toccasana) qualcosa di simile al bipolarismo. L’influenza xenofoba, sulle misure da adottare, sul linguaggio e sul livello del dibattito, è stata negativa e profonda. Il buon senso dei vertici delle forze dell’ordine ha prevenuto violenze dirette sui profughi. E ha permesso a una colonna di profughi, a piedi, di dirigersi verso la ospitale Svezia, scortata dagli agenti ma anche bersagliata da gesti di intolleranza. A proposito di Svezia, la differenza salta agli occhi: storica e di prospettiva politica. In Svezia ben un sesto degli abitanti è nato fuori dai confini, e quest’anno verranno accolti 100mila profughi. La quantità di rifugiati a testa è record: il doppio della Svizzera, 4 volte la Germania e la Danimarca (appunto), 25 volte gli Usa. Il populismo di destra è forte, almeno il 13 per cento, ma non ancora quanto in Danimarca, né elettoralmente né come impatto politico. A Stoccolma, il premier socialdemocratico ed ex leader metalmeccanico, Löfven, ha deciso di sfruttare l’impressione che il dramma dei profughi sta causando sull’opinione pubblica. I quattro partiti liberalconservatori e democristiani, fino a ieri al governo in coalizione, devono ancora decidere se includere in futuro il populismo xenofobo nelle proprie strategie. Come è ovvio per un paese con simili tradizioni di accoglienza l’emergenza umanitaria divide l’elettorato di quell’area rispetto a questa prospettiva politica. Così, la socialdemocrazia cerca di sfruttare il momento rilanciando un atteggiamento maggiormente umanitario, che in parlamento obblighi anche il centrodestra classico.

Allontanandolo da soluzioni e prospettive politiche opposte. La socialdemocrazia all’opposizione in Danimarca è in una fase ben diversa: il Dansk Folkeparti la tallona oltre il 20 per cento, e ha già un passato di accettazione aperta nel gioco politico. La socialdemocrazia (come e più che nel resto della Ue) non riesce a recuperare l’elettorato popolare migrato in lidi populisti perché le politiche seguite nel quadriennio appena trascorso al governo non sono state di crescita e inclusione sociale. Il modello nordico viene eroso, la diseguaglianza aumenta anche qui. Inoltre, l’alleanza futura più probabile per scalzare il centrodestra è (di nuovo) Socialdemocratici-Radicali. Questi ultimi sono molto liberal-liberisti ed europeisti, e al contempo piuttosto pro-immigrati: giusto la miscela sbagliata se i socialdemocratici devono riprendersi i voti persi presso il partito xenofobo. La nuova leader socialdemocratica Mette Frederiksen prova a muoversi, e rispetto all’esperienza di governo forse è spostata leggermente a sinistra. Ultimamente cerca accordi con il Dansk Folkeparti, specie sui temi economici e redistributivi, ma esigendo di coinvolgere il governo liberale. L’idea è ottenere nuovi risultati entrando nel gioco parlamentare per mostrare agli elettori del Dansk Folkeparti che in futuro possono essere ottenuti risultati (in campo sociale, e non solo) anche coi socialdemocratici al governo.

Secondo i partiti più a sinistra (socialisti popolari e lista unitaria) la via è un’altra: fare patti sulle politiche redistribuitive con il Dansk Folkeparti, ma tagliando fuori il governo, e impedendo (per esempio) all’esecutivo liberal-conservatore di peggiorare ulteriormente i livelli di sostituzione dei redditi per i disoccupati. Una strategia che mira direttamente a rafforzare il lavoro dipendente e il sindacato nel mercato, e che punta su questa base ad un’alternativa con maggioranza (almeno parlamentare) di sinistra per un futuro prossimo. È del tutto evidente, comunque, che anche la sinistra danese vede che la questione sociale e il cambio di ricette richiedano, almeno oggi, più che la mera condanna morale del Dansk Folkeparti. Il disinnesco dei danni provocati da questo partito sarà comunque graduale.

Intanto, appare a molti indispensabile rompere gli equilibri politici, e ancora prima le tendenze economico-sociali dell’ultimo quindicennio. Tutto ciò si muove dietro alle penose scene che abbiamo visto alla frontiera danese. La via nordica per non rinnegare se stessi come modello di inclusione non è semplice. E, per ora, non è nemmeno esaltante.