Una vera e propria agiografia, firmata servizio pubblico. Il documentario Sergio Marchionne andato in onda venerdì sera in prima serata su Rai3 – ora disponibile su RaiPlay – dura 112 minuti e riesce nell’impresa di non far parlare neanche un operaio in presa diretta. Solo qualche servizio televisivo che ritrae chi ne omaggiò la figura nel giorno della sua morte o nei passaggi decisivi della più dura battaglia operaia degli ultimi 30 anni, più la figlia di un operaio americano che rilegge la sua lettera citata da Marchionne in discorso pubblico. Completamente dimenticati gli operai di Pomigliano, in cassa integrazione per tutti i 14 anni di regno Marchionne nella fu Fiat.
Scritto da Giovanni Filippetto, con la regia di Francesco Miccichè, coprodotto da Mario Rossini per Red Film con Rai Documentari e Luce Cinecittà con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte, il prodotto è certamente innovativo: gli archi in sottofondo sottolineano le velleità internazionali del più costoso documentario Rai degli ultimi anni. Le parti di fiction con un finto Marchionne ripreso di spalle a dare indicazioni ai suoi manager in una nuvola di fumo sono la cifra artistica.

MA L’OMISSIONE dei suoi completamente sballati giudizi sul futuro dell’elettrico («meglio puntare sul metano» disse nel 2017), ritardo tecnologico che è la causa principale dell’attuale cassa integrazione negli stabilimenti italiani di Stellantis – figlia di una fusione che Marchionne avrebbe preferito fare con General Motors – lo rendono storicamente assai carente.
La scelta degli interlocutori poi si è rivelata quanto meno improvvida. Luigi Gubitosi – che non fu affatto vicino a Marchionne – proprio venerdì si è dimesso da Tim dopo anni di gestione fallimentare con la coda della chiamata degli amici americani del fondo Kkr. Sarebbe stato più interessante sentire Alfredo Altavilla – presente solo nell’«anteprima» televisiva – il manager italiano che puntava a succedergli, a cui invece Marchionne preferì quel Mike Manley che fece notizia solo per aver venduto le azioni Fca e intascato miliardi. Altavilla si è rifatto ora esportando il «modello Marchionne» (fuoriuscita dal contratto nazionale, taglio dei salari e dei diritti, protervia nei confronti dei sindacati) nella nuova Alitalia, quella Ita a totale capitale pubblico, toccando nuove vette di sperimentazione liberista. Anche il flop in Ferrari – dalla defenestrazione di Montezemolo il «cavallino rampante» non ha più vinto niente – passa in cavalleria.

IL PARAGONE con «Steve Jobs per l’aria da guru» fatto da Marco Ferrante – biografo scelto al posto di quel Tommaso Ebhardt che fu suo confidente negli anni finali o Massimo Mucchetti, il giornalista del Corriere che più lo mise in difficoltà – è globalmente inconsistente: Marchionne è stato un genio della finanza, non un innovatore di prodotto.
Di Gianni Riotta spiccano i giudizi più carezzevoli e l’uso del solo nome a sottolineare la vicinanza ai personaggi citati e quel «innanzitutto rimane la Fiat» smentito clamorosamente dalla realtà. Parabola simile ha avuto Marco Bentivogli: per l’ultima parte segretario Fim Cisl firmatario di ogni accordo con Marchionne, ora scrive per Repubblica, giornale nel frattempo passato agli Agnelli mentre Gad Lerner – che su quel giornale lo criticò – lo ha lasciato denunciandone la deriva pro imprese. L’immancabile Matteo Renzi con le sue immancabili bugie («ci ho litigato decine di volte») è la ciliegina sulla torta. La presenza di Marco Revelli e di Maurizio Landini non riequilibra di certo il contesto ma salva la forma anche perché lo scontro di Marchionne con la Fiom finì con una sconfitta totalmente rimossa nel documentario: la sentenza della Corte Costituzionale del 2013 che fece rientrare la Cgil nelle fabbriche dell’allora Fca, mettendo fine all’apartheid voluta e studiata dal «manager con maglioncino».

IL QUADRO che viene fuori è una beatificazione che non sarebbe piaciuta nemmeno allo stesso Marchionne. Il «dottore» descritto dalla segretaria personale e da alcuni manager secondari è una specie di supereroe che lavorava instancabilmente. La totale rimozione delle condanne di manager Fca nelle inchieste americane per corruzione del sindacato Uaw sono il naturale corollario. La «retorica del Marchionne socialdemocratico», imperituro stigma dell’ineffabile Piero Fassino, fa il pari con la citazione della famosa frase «i diritti sono sacrosanti e vanno tutelati ma se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo» con annessa lezioncina sugli effetti nefasti del ’68 e sul concetto di dovere. È stata imparata a memoria da gran parte dei liberisti italiani e declinata in chiave di battaglia alla mediocrità e modello meritocratico. I tanti piccoli Marchionne che le cronache delle crisi industriali ci propinano quasi quotidianamente ne sono il prodotto. John Elkann è certamente il più veritiero: gli Agnelli sono gli unici ad aver guadagnato dall’era Marchionne che li salvò dal fallimento e poi riempiti di dividendi. Illuminanti i titoli di coda in cui si ricorda che ora «in Italia in 12 stabilimenti lavorano 54mila persone». Solo nel 2016 erano 86mila: in cinque anni i lavoratori si sono quasi dimezzati.