Non è ben chiaro a cosa si riferissero i media italiani quando qualche settimana fa raccontavano del «metodo israeliano» per contrastare la diffusione del coronavirus e attenuarne i riflessi, altrimenti devastanti, per l’economia.

Quel «metodo» non si è visto. Di fronte ai numeri del contagio in rapida crescita nel paese, il premier Netanyahu ha adottato il «metodo italiano», o «cinese», ordinando alla popolazione di restare in casa, ha fermato buona parte delle attività economiche, ha proibito le attività pubbliche (incluse le preghiere), ha dichiarato «zone rosse» alcune aree e la città di Bnei Brak, popolata da circa 200mila ebrei ultraortodossi, e ha anche ordinato un coprifuoco, tra il pomeriggio dell’8 aprile e la mattina del giorno successivo.

E Netanyahu, come altri capi di governo, non ha mancato neanche di ordinare a polizia ed esercito di imporre, anche con la forza, il rispetto delle misure restrittive.

Tuttavia tra le misure straordinarie anti-coronavirus, una senza alcun dubbio è un «metodo israeliano». A metà marzo Netanyahu ha annunciato la decisione, senza portarla prima all’attenzione della Knesset, di consentire al «sistema antiterrorismo» dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) di monitorare i possessori di smartphone, per ricostruire i movimenti di coloro a cui viene diagnosticato il virus e con chi sono venuti in contatto, nonché di garantire che le persone rispettino la quarantena e le regole di autoisolamento.

Grazie a questo controllo il ministero della salute è in grado di avvisare una persona che ha avuto contatti con un positivo e metterla in quarantena o convocarla per il test del tampone. Non sono mancate le proteste da parte di chi vi ha visto un pesante attacco alla privacy dei cittadini e il tentativo di un premier, atteso da un processo per corruzione, frode e abuso di potere, di provare a scardinare il «carattere democratico di Israele».

Polemiche ha sollevato anche la voce di un possibile coinvolgimento dell’azienda israeliana di spionaggio elettronico Nco, divenuta nota per aver fornito ai servizi segreti di vari paesi (anche arabi) lo spyware Pegasus per seguire i movimenti e i contatti di oppositori politici ed attivisti dei diritti umani.

La pressione ha spinto Netanyahu a formare una commissione ministeriale per monitorare le attività di controllo svolte dallo Shin Bet e dalla polizia. Un passo seguito alle rivelazioni fatte del giornale Yediot Ahronot sullo Shin Bet che ha accesso a un’enorme banca dati con informazioni raccolte su tutte le comunicazioni elettroniche effettuate in Israele.

Nota come «Lo Strumento», la banca dati include anche le telefonate e l’utilizzo del web nel Paese. I server e le compagnie di telefonia mobile devono, per legge, condividere i registri sulla durata delle chiamate, le loro posizioni e l’uso di internet. Pare che lo Shin Bet non riceva informazioni su ciò di cui la gente parla ma ottiene i dati su dove si trovava, chi ha chiamato e per quanto tempo. Sa inoltre quali siti si visitano e per quanto tempo ma non il contenuto che si sceglie.

Le cose stanno davvero così? I dubbi sono forti. Comunque sia lo Shin Bet, non appena è stato revocato lo stop ordinato dai giudici della Corte suprema dopo i ricorsi presentati da varie parti, si è messo al lavoro e alla fine di marzo ha fatto sapere di aver individuato 500 persone positive al coronavirus e ricostruito i movimenti ed i contatti avuti con altri cittadini.

«Israele è una democrazia e dobbiamo mantenere l’equilibrio tra i diritti civili e le esigenze del pubblico», ha assicurato Netanyahu. Ma le proteste di intellettuali, attivisti dei diritti civili ed opinionisti non si placano. In ogni caso questa levata di scudi non tiene conto del fatto che la sorveglianza elettronica, per «combattere il terrorismo», è usata regolarmente dallo Shin Bet e dall’Unità 8200 dell’Esercito per conoscere i particolari, anche quelli più intimi, della vita di milioni di palestinesi nei Territori occupati, i quali, evidentemente, non hanno diritto alla privacy.