Non passa giorno che in qualche angolo d’Europa non si produca un nuovo episodio di regressione. Nel senso di una revoca dei livelli di libertà, integrazione, apertura culturale e politica precedentemente raggiunti. Il fatto che questi episodi siano di natura diversa rende ancora più inquietante il clima che alimentano.

Tre sono le direttrici all’interno delle quali prendono forma: il tema della sicurezza, quello dell’immigrazione e quello della competitività di mercato.

Mentre attendiamo, con poca speranza di essere smentiti, che una maggioranza di ungheresi si pronunci contro la quota obbligatoria di accoglienza dei rifugiati, stabilita da Bruxelles, il governo svedese, a guida socialdemocratica, si accinge a ripristinare, per il 2018, la leva obbligatoria, pilastro storico dello Stato nazionale. Necessaria, si sostiene a Stoccolma, per tenere adeguatamente in funzione la macchina difensiva del Paese, (neutrale e fuori dalla Nato), indispettito dai ripetuti sconfinamenti dell’aviazione russa sul suo spazio aereo.

È un piccolo esempio di come la questione dei confini (di fronte a minacce non proprio tra le più consistenti) si ripercuota sulla vita dei cittadini, sui loro obblighi e sulle loro libertà. Come, del resto, accade con le frequenti sospensioni e i limiti imposti alla libera circolazione delle persone sancita da Schengen, nonché con sempre nuove normative discriminatorie nei confronti degli stranieri anche se comunitari. Vuoi per far fronte all’ondata migratoria, vuoi per l’emergenza terrorismo, vuoi per sbarazzarsi dei cosiddetti «turisti del welfare».

A Budapest non si vota in realtà sulla questione dei migranti e neanche contro la tecnocrazia comunitaria, ma essenzialmente con lo scopo di legittimare una torsione autoritaria del sistema politico, già da lungo tempo in atto.

Non a caso, da Varsavia a Vienna, la chiusura nei confronti dei rifugiati si accompagna alla riesumazione dei valori e delle gerarchie tradizionali, alla compressione dei diritti civili, a visioni organiciste, confessionali e identitarie dello Stato.

Le «vie nazionali», che nell’est dell’Europa avevano espresso l’ambizione di acquisire autonomia e spazi di libertà nei confronti della dominazione sovietica, ricompaiono trasfigurate in polemica con i modelli occidentali della democrazia.

Non per criticarne le insufficienze o le derive oligarchiche, ma per denunciarne il «lassismo», il «cosmopolitismo», la «fiacchezza identitaria».

E contrapporvi il mito salvifico dell’«uomo forte».