Sul lago i tavolini dei caffè cercano riparo dalla pioggia mentre i festivalieri intirizziti corrono dentro le sale. «Eppure fino a ieri era primavera … » sorride la panettiera – la migliore della città assicurano i clienti fedeli – servendo la torta del giorno. Nyon, Svizzera francese, la città grande più vicina è Ginevra, non lontano c’è Montreux, mèta storica degli appassionati di jazz, l’attività culturale nel cantone continua a essere un investimento importante. Qui da 47 anni Visions du Reel (fino a sabato) esplora le diverse tendenze di racconto della realtà confermandosi a ogni edizione come il riferimento più importante per professionisti (produttori, distributori, programmatori), filmmaker, critici, studiosi, un pubblico cinefilo e non solo. C’è chi viene anche soltanto per il piacere di ritrovare gli amici, chi perché ama guardare i film sul grande schermo, chi per scoprire qualcosa di nuovo. Luciano Barisone, il direttore artistico, fabbrica ogni anno un programma che punta sulla diversità ma soprattutto sulla proposta di un’immagine della reale che non asseconda generi e formati, che non si adegua alla cronaca e che il sentimento del tempo presente lo cerca in una dimensione universale.

 

 

 

 

Un fiume, due ragazzini, l’estate di un’infanzia che sfuma verso l’adolescenza, quel limite ambiguo e palpitante di folgorazioni improvvise: il corpo che cambia, un desiderio che si accende confusamente, qualcosa che balena nella traiettoria di uno sguardo insieme timido e sfacciato. Siamo in una provincia italiana a nord dove la natura sconfina nel centro commerciale, Samuele e Matteo sono amici, le vacanze disegnano il bordo (l’inquadratura?) del loro vissuto comune del quale non sappiamo né il prima né il dopo. L’anno passato sono le ragazze e il sesso, confidenze imbarazzate al coperto di una capanna costruita sulle rive del ruscello. Le giornate corrono sulla bici, sotto al sole la pelle si screpola per una nuova abbronzatura sulle spalle, i corpi svelano i segni del loro cambiamento.

 

 

 

 

I Cormorani è stata una delle belle sorprese che ci ha regalato il festival, un’opera prima sensibile e densa che trasforma i rischi della sua materia, l’adolescenza e i suoi riti, in una cartografia poetica. Fabio Bobbio, il regista, montatore empatico dei film di Mirko Locatelli (I corpi estranei), non evita la dimensione letteraria, le icone, i passaggi «obbligati» ma anzi vi si immerge con delicatezza traducendoli in una materia viva. Non accade nulla e accade tutto in quel tempo che appare infinito di cui i due giovani e magnifici protagonisti scoprono gli spaventi e le trappole improvvise, la fugacità, le ferite di un tradimento, il dolore di una separazione ma anche la capacità di ritrovarsi nei cambiamenti. Crescere è come una fuga nel bosco di notte, come la rissa con la banda di ragazzini rivali, come le insidie nel tunnel del terrore al luna park. È una spinta, tirarsi l’acqua gelata al sole, lottare, liberare l’istinto e infine lasciarsi andare.

 

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Complicità, orizzonti che devono ancora schiudersi: il combattimento terribile e faticoso di un istante in cui tutto può accadere che Bobbio restituisce fisicamente nel paesaggio e nella sensualità dei gesti, nella grana narrativa che appartiene interamente ai due ragazzini. Una dimensione reale e fantastica in cui la letteratura «adolescente» e i suoi fantasmi – una prostituta spiata dai cespugli, le ragazzine appena scorte sull’autoscontro, il maschile di strafottenza e insicurezza – diventano esperienza e racconto.

 

Un adolescente è anche il protagonista de Il passo (Concorso mediometraggi) realizzato da tre giovani cineasti, Mattia Colombo, Francesco Ferri e Alessanda Locatelli – sua l’idea che nasce dai ricordi di infanzia, quando vedeva passare i pastori diretti verso gli alpeggi. Anche qui siamo in un paesaggio italiano a nord (la Valtellina) quasi invisibile di presente e mestieri antichi. Gabriele vuole la moto e per comprarla passerà l’estate all’alpeggio con i pastori. Sono adulti ruvidi, abituati a misurarsi sulla fatica di un lavoro fatto di regole, tradizioni, durezze, quel ragazzino «nuovo» che passata l’estate tornerà a scuola lo mettono subito alla prova. Lo prendono in giro, lo sgridano, ridono quando al primo sorso di grappa è subito sbronzo. E per le cure della mamma che gli telefona sempre, lui che ha le idee ancora poco chiare, c’è la motocicletta ma un giorno «da grande» sceglierà quella strada o scapperà lontano come sempre più spesso fanno i ragazzi? Intorno le montagne, la solitudine, il cielo che cambia veloce, le mucche che si devono proteggere dalla tempesta.

 

 

 

 

Il silenzio, i gesti ripetuti ogni mattina all’alba, i compagni di scuola che salgono su e davanti a Gabriele che conduce spavaldo al pascolo le vacche sembrano ancora dei bambini. Mentre lui si sente già da un’altra parte, già grande, «vero uomo» e quando la mamma prova a carezzargli i capelli si scosta quasi arrabbiato.
È un romanzo di formazione Il passo nel quale le scoperte della vita, i passaggi dell’età acerba si intrecciano alla narrazione di un universo e di una tradizione che appaiono sempre più per pochi. I tre cineasti, che hanno seguito i loro protagonisti condividendo il quotidiano dell’alpeggio, filmano però senza retorica della nostalgia. È l’esperienza del ragazzino che mettono al centro, e quella sua ostinazione di farcela, di conquistare il suo sogno, la motocicletta fiammante, restituisce la realtà che lo circonda.

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Col passare dei giorni Gabriele acquista una diversa sicurezza nei gesti che è la scoperta di una parte nuova di sé. È ancora un ragazzino quando arrossisce e si vergogna di mostrare tenerezza, della torta di compleanno che i suoi gli hanno portato per festeggiare, della sua moto e di cosa farà. E però quel suo corpo magro e scattante all’inizio impacciato ha imparato a muoversi senza esitazioni sull’altura e negli spazi angusti dei rifugi in cui dormono, sa tenere il confronto con chi è più grande di lui, e soprattutto riconoscere il linguaggio di quei luoghi.

 

La scommessa ancora una volta è una corrispondenza tra l’immagine, il suo respiro e questa graduale e insieme improvvisa trasformazione, quasi inconsapevole, come il fischio lanciato nell’aria per chiamare gli animali che i registi raccolgono in un film capace di restituirne l’intima conflittualità. Il personaggio di Gabriele, e il mondo che affronta, emergono in una relazione, mai invasiva, costruita sulle attese e sul tempo dell’osservazione, sulle epifanie improvvise di una rivelazione che diviene reciprocità.