A Vejano, paesino della Tuscia laziale, i cacciatori parlano spesso di un tale Mario, chiamato Il Solengo come il maschio del cinghiale che si isola dal gruppo: Mario – detto de’ Marcella dal nome della madre – ha vissuto per sessant’anni in una grotta, sdegnando ogni contatto umano e rinchiuso nel suo mistero. Su di lui ci sono solo gli aneddoti di chi lo incontrava nella campagna e occasionalmente in paese, e la leggenda di un terribile fatto di sangue accaduto quando era bambino.
Il Solengo è il titolo del documentario di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi che ha appena vinto Italiana.doc al Torino Film Festival e il secondo premio del Concorso Prospettive al Filmmaker Fest di Milano, dopo aver conquistato il primo premio nel concorso internazionale di DocLisboa diventando un piccolo evento cinematografico. I due registi romani raccontano la storia di Mario, ma non attraverso un’indagine sulle motivazioni che lo hanno spinto a vivere nei boschi, bensì tramite «la voce di paese», come la chiama Matteo Zoppis: le storie, spesso contraddittorie, raccontate sul suo conto dagli uomini di Vejano. I

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Il Solengo diventa così il mistero verso il quale il film tende e di cui erige il «monumento», ma soprattutto il pretesto per mettere in scena il racconto e le leggende popolari, lo stesso conversare dialettale tra i «veianesi». «A noi piace un cinema di omissioni – continua Zoppis – nel quale è più suggestivo sentire parlare di una persona assente. E nel caso di Mario, sono i luoghi a parlare per lui». Gli anfratti bui della campagna in cui viveva, gli utensili che si era costruito nel corso degli anni, e infine Mario stesso, rintracciato dai registi grazie a una sua amica, che con la sua comparsa e le sue poche parole non scioglie nessuna curiosità ma rinforza piuttosto il mistero che avvolge la sua figura di eremita.

 

 

Come siete venuti a conoscenza dell’esistenza del Solengo e perché avete deciso di fare un film su di lui?
Matteo Zoppis: Due anni fa stavamo girando un mediometraggio, Belva nera, in quegli stessi luoghi, e durante una pausa pranzo i cacciatori si sono messi a parlare in modo vago e contraddittorio di questo Mario de’ Marcella. All’inizio hanno dato pochi elementi, parlavano di un uomo che per sessant’anni ha vissuto in una grotta. Poi qualcuno ha accennato a un fatto di sangue: ci siamo incuriositi e abbiamo cominciato a fare domande. Mano a mano che ci addentravamo nell’argomento siamo rimasti sempre più colpiti. Così abbiamo deciso di girare un cortometraggio con la pellicola che ci rimaneva. Il Solengo è il tentativo di ricreare le sensazioni che ci ha dato ascoltare le storie dei cacciatori durante quella pausa pranzo. Non a caso è girato quasi interamente a tavola, e i personaggi parlano tra loro ma anche a noi spettatori.

 

 

Sono del tutto assenti delle testimonianze femminili.
Alessio Rigo De Righi: Le donne hanno un ruolo centrale nella storia, si parla di loro sempre, per cui qualsiasi testimonianza femminile alla pari di quella dei cacciatori sarebbe risultata «di troppo»: abbiamo capito che sarebbe stato ancora più forte ometterla.

M.Z.: Il loro è un ambiente maschilista e allo stesso tempo matriarcale, un mondo di caccia, di uomini che vivono della terra e in circoli dove le donne entrano poco. I protagonisti spesso scappano dalle mogli, come racconta uno di loro. Abbiamo cercato di riprodutte nel documentario questa condizione.

 

 

Il film si concentra soprattutto sull’atto stesso di raccontare.
A.R.:Abbiamo voluto ricreare la storia a partire dalle testimonianze dei cacciatori, ma ci interessava anche molto dare forma a quel mondo e agli uomini seduti intorno al tavolo lavorando sulle loro storie e su di loro come se fossero dei veri e propri personaggi di finzione. Lo sviluppo narrativo del film procede in parallelo tra la storia di Mario de’ Marcella e quello che veniamo a sapere delle varie persone che ne parlano.
M.Z.: Parlando di lui, i protagonisti parlavano di loro stessi e questa è la cosa che più ci piaceva, che consentiva di far emergere tante cose su quel mondo tradizionale rimasto un po’ fuori dalla gentrificazione in cui viviamo tutti. Il film è basato sul racconto popolare e su dei luoghi particolari: una campagna oscura diversa dall’ideale romantico della campagna italiana. L’immagine di Mario è stata creata anche per noi dagli aneddoti che abbiamo sentito, e siamo stati sorpresi che la sua figura in qualche modo li eccedesse.

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Cosa significava per voi portare infine nel film il suo protagonista «in assenza»?
A.R.: La scelta di inserire l’intervista a Mario alla fine del film e di circoscriverla a poche battute ci è servita per ricreare la stessa sensazione che ci ha dato lui mantenendo l’idea di un personaggio misterioso, non disposto a rivelare nulla. Nel finale lo «regaliamo» al pubblico conservando questo suo aspetto di uomo fortemente schivo. L’interesse nei confronti di una persona di questo tipo è immediato, perché è completamente anticonvenzionale, ha vissuto fuori dalla società. E nel momento in cui l’abbiamo incontrato ci siamo resi conto di come la sua figura fosse ancora più forte e sorprendente dell’idea diffusa e romantica dell’eremita.
M.Z.: Anche perché non è un eremita con vocazioni religiose, anzi. Ricordo di avergli chiesto se credeva in Dio. Lui mi ha risposto: «non si è mai fatto vedere dalle mie parti».