Fa piacere ogni tanto imbattersi in un lavoro di palcoscenico che, al di là dei risultati, mostri uno scavo serio e filologico dentro il testo rappresentato. Accade davanti a Dyonisus, il dio nato due volte che Daniele Salvo ha tratto da Le Baccanti di Euripide (e presentato in queste settimane al Vascello, che ne è anche coproduttore). La prima curiosità che salta agli occhi è però nel fatto che, conoscendo il regista come antico allievo di Luca Ronconi, abbia scelto per questo classico una strada diametralmente opposta: Ronconi aveva asciugato e racchiuso il testo in una unica interprete, la straordinaria Marisa Fabbri.

Salvo invece punta su una sorta di piccolo kolossal, spiegando di volersi distanziare da ogni forma di ricerca teatrale degli anni 70, per rendere più aderente allo spettatore di oggi la più misteriosa delle tragedie classiche, quelle Baccanti appunto. Al centro del racconto c’è infatti uno dei molti rami delle maledizioni che gravano sulla città di Tebe, e sulla stirpe di Cadmo che ne innalzò la rocca, quella di Edipo e Giocasta, e dei loro figli nemici Eteocle e Polinice, e della sconfitta disperata di Antigone.

Già dalla fondazione pesa sulla città l’odio di Dioniso, dio misconosciuto e misterico, nato da una donna ma figlio di Zeus, che porta dall’oriente i suoi culti fatti di abbandoni e trasgressioni alla morale comune, causati dall’invasamento per la divinità che proprio questo impersonava nell’Olimpo mitologico della cultura greca. Quindi per una sorta di naturale vendetta, Dioniso scatena le donne della città, compresa Agave, madre del re Penteo. Questi tenta di resistere, ma cedendo alla vanità sarà convinto a inoltrarsi nella foresta delle menadi, dove proprio Agave scambiandolo per un aitante leone lo sbranerà, sventolandone trionfalmente il capo su un ramo devozionale.
Testo delicato e difficile cui dare corpo e corpi. Daniele Salvo non rinuncia all’impronta lasciatagli dal dramma antico di Siracusa, dove ha realizzato applauditi allestimenti.

E usa con sapienza la sua capacità di dare musica e toni adeguati ai testi tragici (assieme a Marco Podda). Ma il grande afflato del racconto, la sua sospensione misterica, il combattuto paesaggio interiore con cui deve misurarsi, in qualche momento gli prendono la mano, sebbene interpretando egli stesso Dioniso sfoderi da attore tutto il carisma di un moderno regista. Con qualche imbarazzo, per fare l’esempio più vistoso, le Baccanti scoprono le proprie pratiche offrendosi discinte all’amore lesbico di maniera, visione semplicistica che evoca quelle offerte di notte da Cielo tv.

Ma allo stesso tempo non mancano momenti di vera bravura: come nel racconto del delitto materno fatto dal messaggero di Melania Giglio; o la disperazione di Cadmo espressa da Paolo Bessegato; o ancora il freddo senso di ordine e legge impersonato dal Penteo di Ivan Alovisio. Fino al godibile cameo finale di Manuela Kustermann (che pure di quegli anni 70 fu oggetto di culto) che dà alla sanguinaria disperazione di Agave accenti di vera commozione, fuori di ogni retorica. Forse qualcosa sulle Baccanti e i loro culti lo spettatore impara, ma i nodi centrali restano avvolti nel mistero…