Harvey Keitel sul tappeto rosso per il Premio alla carriera, Abel Ferrara con la sua bimba biondissima e paffuta, Roger Corman alla cui Factory negli anni Novanta il festival – allora diretto da Marco Mueller – aveva dedicato un magnifico omaggio, ospite d’onore della Filmmaker Academy per la formazione di nuovi registi, sono stati i protagonisti di questo primo lunghissimo fine settimana del Festival di Locarno 69, a sottolineare quel legame con un’idea di cinema «indipendente» che è nella cifra della manifestazione ticinese sin dalle origini. Anche se negli anni le esigenze sono cambiate, sono mutati il rapporto col mercato, la geografia festivaliera, le strategie distributive del business – uscite, scacchiera delle anteprime ecc – imponendo a questo, e più in generale ai festival (neppure alla Mostra di Venezia oggi si farebbe Indiana Jones) nuovi equilibri qui costruiti nella convivenza tra una Piazza Grande più convenzionale – film di richiamo mediatico o spettacolare – e una libertà di ricerca che si produce invece nelle scelte dei film in concorso (nessun film italiano ma quello con l’Italia vista la vicinanza con il festival di Venezia è un altro punto difficile per la rassegna svizzera) e nelle sezioni più attente alle nuove proposte come i Cineasti del presente e Signs of life.

E questo rende il festival diretto da Carlo Chatrian il luogo più giusto per le immagini e gli autori che oggi si avventurano in film indipendenti, appunto, non soltanto produttivamente ma soprattutto nella forma, nei temi, nel racconto. Il pubblico è numeroso, attento, differenziato, mescola cinefili e vacanzieri, sfida i prezzi alti a panini e frutta che riempiono zaini e borse quest’anno controllati a ogni entrata in sala per la minaccia terrorismo – sabato la cittadina era piena di polizia.

Racconta Joao Pedro Rodrigues che all’inizio del suo nuovo film c’erano la vecchia passione per il birdwatching e il desiderio di esplorare la mitologia religiosa da lui conosciuta attraverso le atti.. O Ornitologo, tra i titoli più attesi del concorso locarnese, si ispira infatti alla figura di Sant’Antonio, trasformando il santo di Padova nato a Lisbona e e dominante nella cultura portoghese, in un personaggio con cui attraversare (sensualmente) i luoghi precari di un sentimento contemporaneo e universale. È un romanzo di formazione il film di Rodrigues nel quale il protagonista, un giovane ornitologo, si avventura in zone impervie a nord del Portogallo alla ricerca della rarissima cicogna nera suo fantasma e ossessione.

Di Fernando (Paul Hamy), come si chiamava Antonio prima dei voti, non sappiamo nulla o quasi: ha un amore che gli scrive messaggi teneri e cerca invano di parlargli, è malato perché il suo uomo gli raccomanda di prendere la medicina – «ti preferisco vivo» dice negli sms senza risposta. Forse ha voglia di fuggire per un po’, o forse è solo un caso, un attimo di seduzione, la cicogna che lo guarda e lui che perde il controllo della canoa e finisce nelle rapide, naufrago in un bosco che sembra non avere uscita, popolato da strane creature, spiriti, bisbigli, viaggiatori che nascondono segreti. Come le due ragazze cinesi, pellegrine verso Santiago di Compostela, che lo salvano e poi lo fanno prigioniero. Il ragazzo si risveglia legato come San Sebastiano, o come i tanti altri santi martirizzati nelle icone del’immortalità fabbricate per la fede in mutande e con una imbarazzante erezione che fatica a nascondere. Le due devotissime pianificano di castrarlo. È un’allucinazione o una prova del mistero?

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Da quel momento ogni incontro segna un passaggio, una scoperta, una trasformazione verso qualcos’altro. Il bosco è lo spazio di un mondo animale dove l’umano si perde, o almeno si confonde, del quale il regista cerca l’impossibile sguardo. Gli uccelli che appaiono al ragazzo sembrano avere una consapevolezza di quanto accade che a lui sfugge del tutto, nel loro sguardo (restituito con l’uso delle GoPro) il caos che attraversa lo spirito e la mente di Fernando è già ordinato. O è anche questa un’illusione? Un enigma, un gioco, uno specchio, un mistero, la wilderness impossibile che si manifesta nel corpo del santo. Quello stesso corpo risucchiato nell’ambiguità che oppone sacro e profano, il corpo negato del desiderio e la sua esplosione violenta senza la quale il cammino della santità sembra impossibile.

Fernando si perde sempre di più, gli uccelli lo scrutano enigmatici, da voyeur diviene osservato. Il bosco è un labirinto, la notte si anima di grida. Un rito, una lingua dimenticata, un gruppo di giovani danza selvaggiamente e beve intorno al fuoco, la maschera di Dioniso somiglia a un grande pene, nelle tenebre Fernando spia la festa, qualcuno orina dall’alto sul suo volto,il corpo freme, il desiderio si frustra nella paura.

Il pastorello (caravaggesco) è sordomuto, si chiama Gesù. A Fernando offre cibo e sesso, un pomeriggio di bagni, sole, piacere. E morte. Un coltello, la lotta, il costato del ragazzino che sanguina come quello di Cristo nel racconto tramandato dai secoli. È un’altra prova, l’affermarsi di una pulsione che lo spinge fuori dal mondo. Morire, rinascere, essere un altro, l’amazzone bionda lo chiama Antonio.

Ci sono molti piani stratificati in questo film di libertà spavalda e sorprendente. Rodrigues esplora il sacro e le sue infinite – ma in fondo sempre uguali – declinazioni attraverso i secoli, il paesaggio di un mito che alimenta se stesso, che rende sostanza una superficie artificiosa come quella del bosco popolato da animali impagliati, modellandola negli opportunismi politici e sociali che lo svuotano di umanità. E se l’immagine ascetica dei santi sembra cancellarne il conflitto, la scommessa è dunque cercarne il rovescio, la piega, quel cortocircuito negato tra sacro e pagano, il corpo di una santità «irriverente» di cui il regista portoghese reinventa con ironia l’immagine nascosta. Il suo smascheramento ha il tocco leggiadro di una «grazia» carnale che illumina strabicamente i corpi dei santi liberandone nell’ascesi di torture e patimenti, ferite e anoressie l’erotismo «purificato». La ferita del santo è sofferenza ma anche immagine erotica, il dito entra nella carne, ne succhia il sapore…
Fernando diventa Antonio (e prende l’aspetto di Joao Pedro Rodrigues quasi a ammiccare anche al suo ruolo di regista) ma qui il santo che in Portogallo per volere del dittatore

Salazar era divenuto il protettore delle famiglie corre verso la sua nuova vita insieme all’apocrifo ragazzo della notte. Una storia d’amore omosessuale (anche del gender e della sua rappresentazione Rodrigues sembra però preferire le pieghe) o di amicizia, o di corrispondenza un po’ come i suoi «fantasmi» e gli uomini in bilico dei suoi film.
È quella di Rodrigues una sacralità esistenziale che mette al centro l’esperienza unita all’immaginario per restituirne le sfumature nel cinema. Giocoso, mai categorico o impositivo,

Rodrigues non costruisce macchine spirituali che abbagliano mettendo all’angolo lo spettatore. Al contrario la sua narrazione lascia gli orizzonti aperti, come Fernando anche noi possiamo trovare una dimensione nei molti segni disseminati in quel paesaggio che ci appartenga, una lettura e un filo che unisca quelle immagini al vissuto. In fondo al bosco c’è Padova (questa immagine attuale molto pasoliniana) ma le citazioni, o meglio i riferimenti che Rodrigues affastella sono anche essi parte del mito.Il mistero rimane la vita, lo scompiglio di un viaggio misterioso, quel movimento ineffabile che è la bellezza del cinema.