Volto splendido e inclassificabile, camaleontica nel suo apparire anno dopo anno radicalmente diversa, per look e interpretazione in una serie di film rivoluzionari per la Hollywood dell’epoca – non a caso una sua biografia di qualche anno fa si intitolava La donna dalle cento facce – Eleanor Parker si è spenta a 91 anni per una polmonite nella sua casa di Palm Springs, dopo aver abbandonato ormai da vent’anni i set cinematografici.

Partenza in sordina alla Warner negli anni ’40 e carnet sentimentale tipico della diva di un tempo, quattro matrimoni alle spalle, l’attrice è ricordata dal grande pubblico per il ruolo dell’algida baronessa rivale in amore della suorina Julie Andrews in Tutti insieme appassionatamente di Robert Wise, ma nei sotterranei di Hollywood giace una serie di ruoli che sembrano quasi anticipare quel cinema dell’ «incrinatura», provocata nella prima metà degli anni 60 da autori come Robert Aldrich, William Wyler e Richard Brooks, che avevano già contribuito a intaccare le solide fondamenta degli studios e del buon senso comune, portando un cambiamento interno, non ancora influenzato dalle ondate d’ammutinamento del cinema europeo. Insinuando incertezza e sconforto dentro alla rassicurante ipocrisia colorata di sfarzo e scenografie fintamente pastello, nella sua pluriennale carriera Eleanor Parker ha sempre dimostrato un talento e un eclettismo raramente visto in precedenza, passando con disinvoltura dal mélo alle scanzonate commedie della Mgm, e forse è proprio questa sfacciataggine interpretativa la causa del suo non essere mai stata una vera diva degli studios, a differenza di tante colleghe abbonate ai soliti stereotipi d’interpretazione.

A partire dal suo primo vero ruolo da protagonista in Prima colpa (1950), Coppa Volpi a Venezia per la migliore interpretazione, Eleanor Parker si addentra nella Hollywood velata e segreta con il capostipite del sottogenere exploitation dei cosiddetti «Women in Prison film». Il film di John Cromwell è un inferno carcerario fatto di gerarchie violente, donne aguzzine e relazioni lesbiche celate, alternando feroce critica sociale, melodramma e claustrofobia, dove l’attrice offre una prova maiuscola nelle sue sfumature prima innocenti e poi sottilmente maligne. L’anno successivo le regala un altro ruolo controverso, e la seconda nomination all’Oscar, nel capolavoro di William Wyler Pietà per i giusti, kammerspiel in un commissariato di polizia dove si consuma il dramma di un ispettore poco ortodosso, Kirk Douglas, devastato davanti alla scoperta che l’angelica moglie è ricorsa a un ambiguo dottore per abortire in gran segreto. Film raggelante sulle leggi «criminali» di uno stato che condanna e vieta l’aborto, è un alto esempio di cinema di denuncia contro l’ immobilismo bigotto e, di conseguenza, una sfida al codice Hays e al maccartismo dell’epoca.

Sfida raccolta nuovamente nel 1955 con un altro ruolo disturbante in L’uomo dal braccio d’oro di Otto Preminger, primo film di una major a trattare la questione della droga e magnifico dramma sulla dipendenza, non solo dall’eroina ma anche dall’amore, dove Eleanor Parker, moglie meschina e (finta) paralitica di Sinatra, quasi commuove in un ruolo folle e disperato. Gli anni ’60 iniziano con A casa dopo l’uragano di Vincente Minnelli per proseguire con il sovracitato «blockbuster» canterino di Wise, e una capatina in terra italica ne Il tigre di Dino Risi.

Ma il destino, comune a quasi tutte le interpreti della sua generazione, è la tv: la troviamo in Love Boat, insieme a lei ci sono anche Shelley Winters e Lana Turner, a cui seguono altre comparsate fino alla decisione di ritirarsi dalle scene nel ’91 per tornare ogni tanto sui giornali a raccontare la sua vita senza però mai svelare i segreti di una carriera e di un volto. «A volte mi capita di non riconoscermi nelle fotografie dell’epoca. In alcune assomiglio a Joan Fontaine, in altre a Eleanor Powell e penso che sia una cosa fantastica. Quale donna non ama un po’ di mistero su se stessa?».