Un pastore che si fece re, sconfisse quasi senza armi il gigante Golia e regnò per quarant’anni sulle 12 tribù dell’antica Israele. Fin qui la narrazione biblica della figura di David, progenitore del Messia per gli ebrei e profeta per le genti dell’Islam. Agli occhi di Geraldine Brooks, che lo ha scelto come protagonista del suo nuovo romanzo, L’armonia segreta (Neri Pozza, pp. 320, euro 18. Il romanzo è stato recensito da Massimiliano Villa su Alias della domenica il 2 ottobre scorso), David incarna però prima di tutto i rischi, le contraddizioni e le sfide che caratterizzano il rapporto dell’uomo con il potere.
Un tema senza tempo che dal Medioriente di tremila anni fa acquista non a caso per la scrittrice australiana stabilitasi da tempo negli Stati Uniti, e da sempre schierata su posizioni progressiste, un significato particolare in questi mesi incerti di corsa alla Casa Bianca. Già corrispondente della stampa statunitense dalle aree di crisi, nel 1995 ha dedicato un libro-inchiesta alle donne dei paesi musulmani, Brooks si dedica da oltre un decennio alla narrativa e nel 2006 si è aggiudicata il Pulitzer con il romanzo L’idealista, ambientato ai tempi della Guerra civile americana. Recentemente è stata ospite del festival PordenoneLegge.

Partiamo dal titolo, perché «l’armonia segreta»?
È un’espressione che ho tratto da una delle canzoni più famose di Leonard Cohen, «Hallelujah». Il primo verso dice «ho sentito che c’era un’armonia segreta che David ha suonato… ». Cohen ha ricevuto un’educazione ebraica ortodossa e credo che la Torah abbia influenzato enormemente il suo modo di comporre e scrivere canzoni. In particolare in quel brano sembra rendere tutto il mistero e l’ambivalenza che rendono così affascinante la storia di David. «C’è un tripudio di luce in ogni parola, non importa che cosa abbiate udito, il sacro o lo sbagliato, hallelujah». In poche parole descrive la forza e la fragilità del personaggio, i suoi aspetti luminosi e quelli cupi, il suo essere magnifico ma incompleto, contraddittorio. Come, in qualche modo, siamo tutti noi.

Anni fa lei si è convertita all’ebraismo, questo libro è anche frutto di quella scelta?
Solo in parte. In realtà sono sempre stata molto attratta dalla cultura e dalla storia ebraiche. Sono cresciuta nella periferia di Sidney in una famiglia di immigrati irlandesi iper-cattolici, in un contesto marcato dalle posizioni oscurantiste della Chiesa. A New York, ai tempi dell’università, ho conosciuto il mio futuro marito che viene da una famiglia di ebrei ortodossi di origine russa. Lui non mi ha chiesto niente, ma quando abbiamo deciso di sposarci io mi sono interrogata sul fatto che, visto che l’ebraismo segue una discendenza matrilineare, con me poteva interrompersi la storia di una famiglia che era sopravvissuta alla Shoah e ai pogrom dell’epoca zarista e chissà a cos’altro. Perciò mi sono convertita, più che per fede, per amore della libertà e della storia. Conoscevo già la vicenda di David, ma dal quel momento, attraverso lo studio della Bibbia ebraica, ho cercato di saperne di più. E non mi sono più fermata.

Attraverso David lei sembra esplorare il confine spesso incerto che separa il mito dalla storia. Anche la spregiudicatezza e la volontà di mantenere il potere a tutti i costi rientrano nel ritratto?
Il mio punto di partenza è stato quello di cogliere le zone d’ombra del racconto storico e tentare di colmare vuoti e silenzi seguendo i sentimenti e le emozioni dei personaggi. Però, ciò che mi ha soprattutto attratto della sua figura è stata la complessità. David è stato un guerriero valoroso, un musicista, un uomo politico capace al contempo di grande crudeltà e generosità, un sovrano assoluto che si lasciava inebriare dal sangue e dalla lussuria. Un uomo capace di amare con la stessa intensità le sue mogli e Gionata, il figlio di re Saul. In qualche modo è il primo personaggio della letteratura con una biografia così dettagliata, vale a dire il racconto che ne fa la Torah, ma è anche un testimone di come la brama di potere possa trasformare le persone: una storia della giovinezza dell’umanità che non appare poi così lontana al mondo di oggi.
Accanto a David, il libro dà voce alle protagoniste femminili dell’epoca. Una caratteristica che ritorna da sempre nel suo lavoro.
Senza dubbio. Già vent’anni fa sul Wall Street Journal ho raccontato le storie negate delle donne musulmane. In questo caso ho fatto più o meno lo stesso, nel senso che le donne dell’Antico Testamento hanno diritto a qualche riga solo come «spose di…», «sorelle di…» e talvolta di loro non ci è tramandato neppure il nome. Alle mogli di David, come Mikhal e Bat-Sheva è andata un po’ meglio, perlomeno sappiamo come si chiamano, ma non molto di più. Così ho cercato di scoprire qualcosa delle loro vite, per capire le scelte che hanno fatto, il modo in cui hanno contribuito non solo a salvaguardare se stesse e i propri figli ma anche a favorire la soluzione di conflitti e, spesso, a evitare che altro sangue fosse sparso in quella società dominata dalla violenza.

Proprio il voto delle donne potrebbe risultare decisivo nelle presidenziali americane, come valuta la situazione?
Spero davvero che le elettrici si ricordino di quanto sono costate le conquiste di cui godiamo oggi e fermino un candidato che ha dimostrato in tutti i modi di odiare le donne, come è Donald Trump. Più in generale, credo che quando nel futuro guarderemo a questo periodo storico vedremo come negli Stati Uniti siano emerse due tendenze, tra loro contraddittorie. Da un lato un paese che è in grado di offrire nuove possibilità di crescita individuale a un grande numero di persone, dall’altro una parte crescente della popolazione, specie tra i lavoratori manuali e la classe media che hanno la sensazione di essere stati lasciati indietro se non proprio abbandonati perché hanno visto scomparire il loro vecchio mondo, le loro certezze di un tempo e stentano a trovare un ruolo nella nuova società che si va delineando.
Sono stata una grande sostenitrice di Obama, ma mi rendo conto che soprattutto a causa della dura opposizione che gli è stata riservata dalla destra, penso al movimento del Tea Party ma anche all’ostruzionismo parlamentare dei Repubblicani, è riuscito a portare a termine solo in parte il suo programma. Perciò, anche se le responsabilità principali sono di altri, è evidente come il suo mandato si chiuda in un clima di forte delusione.

Donald Trump sembra dar voce ad una rabbia e ad un sentimento di sfiducia diffusi: come si risponde ad una tale sfida?
Prima di tutto si deve prendere atto che si tratta di uno stato d’animo legittimo per chi ha visto peggiorare le proprie condizioni di vita, o che non è riuscito a cogliere i frutti della ripresa economica. Questa frustrazione rischia di minare dalle fondamenta la società americana. Perciò, come progressisti dobbiamo fare di tutto per superare questo stato di cose, favorendo riforme economiche più egualitarie e rassicurando quanti sembrano non ritrovarsi più in una realtà che percepiscono come estranea. Il punto è che si tratta di un lavoro difficile che ha bisogno di tempo, mentre invece una parte almeno va fatta da qui all’8 di novembre. E’ una corsa contro il tempo, ma non possiamo permetterci di perderla.