«Mistero della fede», recita la liturgia della Messa cattolica e, senza essere blasfemi, si potrebbe replicare la medesima evocazione stando con i piedi nei bassifondi blasfemi della televisione.
Il riferimento è alla bizzarra vicenda del canone di abbonamento della Rai.

A poche settimane dalla fine dell’anno, ancora non è chiaro cosa dovranno fare i cittadini-utenti: pagare –magari con qualche ritocco- la vecchia tassa sul possesso dell’apparecchio radio o televisivo; ovvero attendere qualche bella (?) novella da parte del sottosegretario Giacomelli, che Il Tirreno ha persino chiamato «il mago di Prato».

Le ripetute anticipazioni contenute in numerose interviste – spicca quella assai articolata pubblicata dal puntuale mensile Prima Comunicazione – vanno nel senso della revisione profonda della stessa filosofia del canone.

Ma come? Qui casca l’asino.

Se è vero ciò che si legge nelle anticipazioni, si tratterebbe di un fuoco fatuo. Infatti, l’ipotesi in corso di preparazione (per quando, il 2015 è alle porte) stabilirebbe diverse fasce di pagamento, a seconda dei tetti Isee (gli indicatori di ricchezza), tra trenta ed ottanta euro – cifra quest’ultima assurta ad ontologia del governo Renzi. A parte le esenzioni per i settori più deboli.

I calcoli porterebbero a eguagliare e forse a superare – si sostiene – l’introito attuale (1,7 md di euro, pur con un’evasione di circa il 27%). È giusto cambiare la fisiologia di una tassa che risale al Regio decreto del 1938, ma andando fino in fondo.

Già negli anni del centrosinistra dell’epoca 1996/2001 vi fu un tentativo serio di cambiamento. L’idea era semplice e innovativa: inserire il canone nella dichiarazione dei redditi, proporzionandolo alle possibilità di spesa.

A fronte di una considerevole quota esclusa dal pagamento, si otterrebbe un introito ben maggiore della cabalistica soglia degli ottanta euro. Per chi ha tante abitazioni e un reddito alto, perché non alzare considerevolmente la quota dovuta?

E sì, visto che per una Rai debitamente rifondata come effettivo servizio pubblico le risorse servirebbero per svolgere le funzioni essenziali: produzione di film e audiovisivi italiani ed europei; radicamento nel territorio, illuminazione delle periferie geografiche e sociali – come ben ha detto Articolo 21 nel recente seminario ad Assisi; ri-alfabetizzazione degli italiani nell’era digitale. Sono temi discussi pure nell’ultima straordinaria edizione di «Contromafie», promossa da Libera di don Ciotti.

Non a caso. La Rai ritorna al suo ruolo autentico se riscopre la funzione etica e partecipativa della comunicazione intesa come bene comune.

Per la cronaca, il progetto degli anni novanta si arenò per le difficoltà tecniche emerse nella fase operativa. Ma in quella terribile stagione accadde anche di peggio: il disegno di legge n.1138 di radicale riforma della Rai fu insabbiato e il conflitto di interessi pure. Tragedie note e peccati irrimediabili. Ora, però, è obbligatorio osare un po’, agendo una vera revisione del modello finanziario che governa il sistema dei media. Dai canoni per le frequenze, incredibilmente abbassati per Rai e Mediaset; alla pubblicità; ai caratteri e alla misura dell’esangue Fondo dell’editoria; al sostegno dell’agonizzante emittenza locale.

Insomma, un decreto sul canone non fa primavera. Una tessera di un mosaico misterioso. Non è che la famosa guerra dei trent’anni finisce con la Rai in serie B, ridimensionata senza una riforma? Il sistema è in evoluzione e l’Italia sta diventando un’espressione geografica.