Scherzando, ma non troppo, si può sostenere che il problema non sussiste: di lavoratori pubblici non se ne assumono più da anni e i precari sono stati appena prorogati ma rimarranno comunque precari. Quindi stabilire se il nuovo contratto a tutele crescenti riguardi anche loro – la questione del giorno – è un problema di lana caprina.

Diventa però più interessante se la questione è dibattuta all’interno dello stesso governo che ha scritto il primo decreto delega del Jobs act. E ancor di più se a sostenere l’esenzione dei lavoratori statati è lo stesso ministro competente: Marianna Madia.

A confermare la stessa posizione è anche il ministro del lavoro Giuliano Poletti, colui che firma i decreti legislativi. Sebbene la premessa – «Per quello che posso dire io» – lasci margini di incertezza. «La discussione che abbiamo fatto sulla legge delega è stata una discussione sul lavoro privato. Per altro, se si vuol discutere del lavoro pubblico in Parlamento c’è una legge delega sulla Pubblica Amministrazione. Eventualmente lì si può discutere», spiega il ministro del lavoro.

A sostenere il contrario – il nuovo contratto varrà anche per i dipendenti pubblici – è l’ineffabile Pietro Ichino. Per il deus ex machina del provvedimento la dimostrazione starebbe nel fatto che lo stesso ministro Poletti voleva inserire lo stralcio degli statali. Ma la norma all’ultimo momento non è stata inserita. Ergo: il «tutele crescenti» vale anche per loro.

L’oggetto del contendere è comunque l’interpretazione del Testo unico sul pubblico impiego del 2001. Per il senatore-giuslavorista «salvo le assunzioni e le promozioni, soggette al principio costituzionale del concorso, per ogni altro aspetto il rapporto di impiego pubblico è soggetto alle stesse regole che si applicano al settore privato».

Di parere opposto è anche il sindacato, che tira di nuovo in ballo il ministro Marianna Madia. «Quando Renzi annunciò l’abolizione dei cococo noi fummo contenti perché nel settore pubblico ce ne sono ancora 30mila e speravamo che così sarebbero stati assunti a tempo indeterminato – racconta Michele Gentile, responsabile dei settori pubblici della Cgil – ma il ministro Madia ci rispose che il problema non si poneva perché il Jobs act non riguardava i lavoratori pubblici e che quindi i cococo sarebbero rimasti. Ora è lei che deve eventualmente annunciarci il cambiamento».

Per Gentile «il testo unico del 2001 mantiene le specificità del settore» e a dimostarlo c’è proprio la vertenza in corso dei lavoratori delle Province. «Solo nel settore pubblico c’è lo strumento della mobilità che prevede due anni all’80 per cento di stipendio in attesa di una ricollocazione. Una modalità totalmente estranea al settore privato. In più secondo la Cgil le modalità di licenziamento per i dipendenti pubblici esistono già: «il licenziamento per motivi disciplinari lo ha introdotto Brunetta, quello economico o organizzativo è proprio quello applicato ai dipendenti delle Province. Quindi non capiamo a cosa serve allargare il contratto a tutele crescenti al settore pubblico», chiude Gentile.

A chiedere invece esplicitamente l’«applicazione della riforma al settore pubblico» – ma dimostrando quindi che l’allargamento non c’è ancora – è Maurizio Sacconi. L’ex ministro spiega: «Quando presentammo questo criterio di delega fummo indotti a ritirarlo dal governo in quanto esso considerava già vigente l’impegno ad omologare lavoro pubblico e lavoro privato».

Per il resto la battaglia del sindacato contro il Jobs act va avanti. Se Susanna Camusso continua a parlare di «abolizione di fatto dei contratto a tempo indeterminato», la Cgil prepara la via ai ricorsi giudiziari. Basandosi, in Italia, sull’articolo 2106 del Codice civile che al riguardo del potere disciplinare riconosciuto dall’ordinamento al datore nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato prevede «applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione»: il decreto invece non è graduale.

In più la Cgil, come nel caso del decreto Poletti, si riserva di ricorrere alla Commissione europea che passerebbe la palla alla Corte di giustizia facendo riferimento all’articolo 30 della Carta di Nizza sulla “Tutela in caso di licenziamento ingiustificato” – «Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali».

Molto critico sul testo anche il dem Stefano Fassina. «Purtroppo, i primi due decreti attuativi della Delega Lavoro confermano l’obiettivo vero dell’intervento: ulteriore svalutazione del lavoro, data l’impossibilità di svalutare la moneta, per puntare illusoriamente a crescere via export. Insomma, un’altra tappa del mercantilismo liberista raccomandato dalla Troika. Non è una rivoluzione copernicana. È una rivoluzione conservatrice, un cambiamento regressivo», attacca.