E’ il 1998, Borgo Montello, provincia di Latina. All’interno della discarica qualcuno vede un movimento anomalo. Uomini in divisa – raccontano – forse dell’esercito. Fine del 2011, quando a Roma si parla apertamente di possibile emergenza, di nuovo l’esercito appare davanti alla discarica alle porte di Latina. E’ una domenica, quando i cancelli degli impianti sono chiusi. Un mezzo militare passa lentamente su via Monfalcone, qualcuno fotografa le case vicine, gli striscioni delle famiglie distrutte dalla bomba ecologica cresciuta a dismisura. Nessuno saprà spiegare quella visita.
Sono questi alcuni pezzi di un racconto che gli abitanti di Borgo Montello, Borgo Bainsizza e Borgo Santa Maria si passano di bocca in bocca. Il primo – risalente a quindici anni fa – è stato riportato in un messaggio anonimo all’emittente locale Lazio Tv, mentre in trasmissione il conduttore intervistava telefonicamente Carmine Schiavone. Il secondo ha visto molte persone come testimoni. Difficile capire il motivo dell’interesse dell’esercito per quei luoghi. Valore strategico? Quale? Di certo i dieci invasi della seconda discarica del Lazio racchiudono una serie – inviolabile – di misteri. Che tornano alla luce in questi giorni, attraverso il loop verbale delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia più famoso d’Italia, Carmine Schiavone. Tutto, del suo racconto, è ben noto, da anni. O meglio, quasi tutto. Nel 1996 aveva già detto che a Borgo Montello finivano i fusti tossici dei casalesi, «pagati 500 mila lire ognuno». Poi le stesse parole le ha ripetute alla commissione Scalia, il 7 ottobre 1997. E ancora, da agosto scorso, ripete la sua versione almeno una volta a settimana. Riscontri? Tantissimi, convergenti, solidi. E’ certo che nelle falde acquifere di Borgo Montello si nascondano scorie industriali: lo ha certificato l’Arpa Lazio, monitorando la zona tra il 2005 e il 2009. Per ben ventisei volte la concentrazione di cloruro di etilene (1,2-dicloroetano), ad esempio, è risultata superiore ai limiti di legge. Il suo principale utilizzo è come prodotto intermedio nella sintesi del cloruro di vinile, precursore del Pvc. Sostanze che non sono presenti nella normale monnezza di casa, l’unica autorizzata a varcare le porte della discarica di Borgo Montello. E ancora, si contano ormai a decine le testimonianze di chi ha visto arrivare i fusti tossici. «Li ho visti i fusti, li seppellivo io, ma era tutto regolare», assicura una fonte che chiede il riserbo sul nome. «Erano tanti i camion che arrivavano dal nord», assicura Claudio Gatto, abitante del borgo ed ex collaboratore del parroco don Cesare Boschin, ucciso nella sua canonica il 30 marzo 1995. «Lavoravo nel movimento terra e la mattina quando entravo mi rendevo conto che la notte i mezzi erano stati spostati e le terre rivoltate», spiega un altro lavoratore, che chiede l’anonimato. «Fusti? Non ricordo, ma vedevo arrivare una melma nera», racconta uno dei tanti ruspisti che ha operato negli anni ’80 all’interno della discarica. Pezzi di testimonianze che iniziano a rompere il muro dei silenzi, della paura. «Magna e taci», era il motto tra le famiglie dei contadini, che oggi – di fronte ai tanti morti – hanno paura. Già, i morti. Tanti, un numero che nessuna autorità ha mai contabilizzato. Ed è questa, probabilmente, la prova principe, tangibile, difficilmente negabile.
Ora, per Borgo Montello, le istituzioni parlano di bonifica. Era il 1998 quando la Regione Lazio approvò il progetto di recupero delle discariche presistenti, composte dai tre invasi dove l’Arpa Lazio ha indicato la presenza di sostanze industriali. La società che si aggiudicò l’intervento – Ecoambiente, che vede la partecipazione dell’eterno avvocato della monnezza romana Manlio Cerroni – ottenne in cambio l’autorizzazione a coprire le vecchie buche con centinaia di migliaia di metri cubi di rifiuti. Nel progetto d’intervento – firmato da Gian Mario Baruchello, il tecnico delle bonifiche più attivo del Lazio – non c’era traccia di veleni industriali: «Si tratta solo di rifiuti solidi urbani», si legge nelle premesse. Eppure, nel 1992, la procura di Latina aveva aperto un fascicolo ipotizzando la presenza di fusti tossici. Eppure, in quelle stesse terre «bonificate», dieci anni dopo l’Arpa ha contabilizzato la contaminazione. E nel 1997 la pretura di Latina aveva condannato un ex gestore di uno degli invasi di Borgo Montello, per aver sversato «rifiuti speciali e pericolosi». Qualcosa non torna. «Come ha spiegato Massimo Scalia, del racconto di Schiavone rimane da approfondire la storia della discarica di Latina», ha commentato ieri Peppe Ruggero di Libera, durante un incontro di Legambiente. Veleni che attendono un autore.