La disoccupazione continua a mietere record. E a chi chiede conto di numeri vergognosi, il governo non può far altro che invocare gli effetti del Jobs act per migliorarli. Ma i testi del decreto che cancella l’articolo 18 e che dovrebbe far aumentare l’occupazione tardano a prendere la strada dell’approvazione definitiva, allungando a dismisura i tempi di attuazione.

In realtà si tratta solo del primo dei sei decreti previsti: quello sul cosiddetto contratto a tutele crescenti, che di crescente ha solo la monetizzazione dell’indennità in caso di licenziamento senza giusta causa. Il secondo decreto, quello sulla sciarada di nuovi ammortizzatori – Naspi, Asdi, Dis-coll – è bloccato dalla Ragioneria generale che non lo “bollina” per mancata copertura. Mentre i restanti quattro – o tre – compreso quello sulla possibile riduzione dei contratti precari – non saranno pronti prima di mesi – la scadenza prevista nella delega è di «sei mesi dall’approvazione».

Approvati dal consiglio dei ministri lo scorso 24 dicembre non sono ancora stati trasmessi al Parlamento. Con le commssioni Lavoro di Camera e Senato che devono esprimere un parere consultivo sul testo che poi tornerà al consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Stimare i tempi non è facile. Ma di certo anche nel caso del solo primo decreto non si parla di prima di metà febbraio. Sempre che non servino decreti attuativi.

Anche ieri i presidenti delle commissioni lavoro di Camera e Senato erano in attesa di ricevere almeno il testo del primo decreto. Ma nulla. Dal ministero del Lavoro si fa sapere che dovrebbe essere questione di ore o tutt’al più giorni. Ma si sottolinea come il compito di presentarli spetti al ministro per i rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. «Il governo ha detto fin dall’inizio che il Jobs act era una revisione del mercato del lavoro in cui ad un evidente indebolimento delle tutele contro il licenziamento faceva da contraltare un rafforzamento degli ammortizzatori per i lavoratori precari. Per questo è indispensabile che il governo trasmetta al Parlamento in modo contestuale i due decreti», tuona Cesare Damiano, presidente di quella della Camera.

Le commissioni hanno 30 giorni di tempo dalla trasmissione dei testi per esprimere il parere, che sarà molto probabilmente assai diverso. Il governo si aspetta tempi celeri, ma il vero problema sarà sul merito. Damiano infatti non cambia idea sulla necessità di cambiare il testo su almeno tre punti: «eliminazione dell’estensione delle norme ai contratti collettivi, ripristino del riferimento alle tipizzazioni dei contratti collettivi per le sanzioni conservative in caso di licenziamento disciplinare e innalzamento da 4 a 6 mesi dell’indennità minima in sostituzione della reintegra». Sul secondo decreto invece, se per Damiano la mancata copertura oltre i 2,2 miliardi previsti per i nuovi ammortizzatori è di «400 milioni per il 2015», sebbene partano dal 1° maggio, per la Ragioneria riguarda il 2017, quando il numero dei disoccupati da coprire sarà massimo. Difficile però che il governo accontenterà tutte le richieste di Damiano.

Un quadro complesso che toglie fiducia alla stesse imprese che attendono l’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti per valutare se rinnovare i contratti a tempo determinato – fatti col decreto Poletti – nei nuovi – e dal punto di vista delle tutele praticamente identici – contratti. Con la postilla non trascurabile che l’effetto sull’occupazione sarà nullo: non nuovi contratti, ma semplice trasformazione dei vecchi.