L’anno del Signore 1916 terminò con un segno terribile e premonitore per Nicola II, l’ultimo zar di tutte le Russie.

La mattina del 19 dicembre, nei pressi del ponte Bolshoy Petrovsky, ai poliziotti di Pietroburgo toccò calarsi nel ghiaccio della Malaya Nevka per sollevare il corpo di un uomo che aveva le mani e le gambe legate con una corda robusta, la pelle molle e livida, gli occhi spalancati e un foro profondo al centro della fronte.

In effetti le ricerche andavano avanti da tre giorni sull’isola Krestovsky, l’ultimo lembo di terra prima del mare aperto. La ragione di tanto accanimento era quasi esistenziale: quell’uomo scomparso nel nulla aveva attratto per anni invidie e deferenza nei palazzi della città, al suo ministero era legata per alcuni ogni piaga dell’Impero, quindi la semplice vista di un corpo fradicio e stremato sotto il pelo dell’acqua deve avere stabilito un timore duraturo nell’animo di quelli che lo videro per primi.

L’uomo si chiamava Grigorij Efimovich Rasputin, padre spirituale di Nicola Aleksandrovich Romanov e consigliere privato di sua moglie, Aleksandra Fedorovna.
Rasputin era un figlio della Siberia. Si ritiene con certezza che fosse nato a Pokrovskoe, nel Tyumen, all’inizio nel 1869, lo stesso anno in cui, secondo le cronache del tempo, la regione fu colpita da un enorme meteorite. Il padre, Efim, era un dipendente delle poste imperiali, apparteneva a quella categoria di coloni di origine scandinava che avevano abbandonato le terre attorno a Novgorod, poco lontano da Pietroburgo, per fuggire verso oriente attratti dalla possibilità di acquistare tanta terra quanta ne avessero potuta coltivare, beneficiando per di più di un piccolo stipendio pagato dal governo.

Efim Rasputin amava quindi con ferocia la propria libertà e si sentiva legato soltanto a quattro principi: la famiglia, la terra, lo zar e Dio. A Pokrovskoe prese moglie e costruì una izba, diventando, così, uno dei fondatori del villaggio.

La posizione della casa, nel punto in cui un grande viale sterrato si divideva in due, generò probabilmente il cognome della famiglia (rasput, in russo, è il bivio).

Lì nacque Grigorij Rasputin, battezzato da un pope con la formula ortodossa che invocava la Santa Trinità («Voyma Otsa, e Sina amin, e Svyataco Dicha, amin»).
In gioventù, ha scritto Massimo Grillandi in una vecchia biografia, sembrava attirato da due impulsi potenti e distanti: uno verso gli starec, gli uomini di fede che sceglievano la contemplazione negli eremi russi, l’altro verso le donne. Ma alla fede si abbandonò solo dopo il matrimonio con una donna più grande di tre anni (dalla quale avrebbe avuto sette figli), e soprattutto dopo avere assistito all’apparizione della Madonna di Kazan nelle foreste di Pokrovskoe.

In quell’epoca di superstizioni e turbamenti profondi, Rasputin entrò a far parte dei chlysty, la setta dei flagellatori, che propugnava una dottrina del tutto peculiare. Si riteneva, infatti, che la vera fede non dovesse temere in alcun modo il male e che occorresse quindi peccare, e peccare pienamente, per conquistare la pace dei sensi, l’unica strada in grado di condurre all’indifferenza interiore.

In poco tempo Grigorij Rasputin visitò i principali centri dell’ortodossia: la cattedrale di Kazan, a sud di Mosca, nelle terre strappate alle orde dei tatari; poi il monastero delle Grotte a Kiev, che aveva creato nel corso dei secoli vescovi e santi della chiesa russa; infine il Monte Athos, dal quale sarebbe fuggito maledicendo la pratica della sodomia. Al villaggio di Pokrovskoe tornò con una sacca da viaggio colma di icone e qualche dubbia reliquia (un osso frontale di San Cirillo, una falange della mano destra di San Dionisio), nonché il progetto di costruire una chiesa.

Scavò la terra nera sotto la izba del padre per aprire un salone circondato da panche di legno sulle quali sedevano i flagellanti. In quella catacomba buia e fredda compì i primi miracoli, o qualunque cosa fossero: guariva vecchi contadini, bambini con gli spasmi, cavalli che avevano la bava alla bocca. La voce si spandeva, tutti volevano assistere a riti del mistico.

Rasputin faceva sdraiare per terra i pazienti, si inginocchiava al loro fianco e dopo averli fissati a lungo poneva la mano sinistra sulla loro nuca e con la destra blocca per precauzione i polsi.
Quindi parlava per qualche minuto dell’amore di Dio, e pare che sotto la sua voce calda i malati si calmassero. Quel giovane barbuto e spiritato già sentiva, però, che la Russia lo chiamava.

Non è affatto semplice stabilire quale desiderio spinse Rasputin verso Pietroburgo con i soldi sufficienti appena per comprare il biglietto di una nave per Tjumen e quello di un treno per la capitale.

Ed è ancora più difficile comprendere come riuscì ad attraversare i salotti della città, dal consigliere di stato Lotchin al cancelliere Govolin, sino al palazzo d’Inverno.
Ma Pietroburgo è sempre stata un incantesimo, un prodigio architettonico issato su paludi vacillanti, come diceva lo slavista Ripellino sul libro che Andreij Beliy dedicò alla città proprio all’inizio del Novecento: dietro fastose apparenze, palazzi austeri, merletti di cancellate, la «Palmira del Nord» è scaturita come un miraggio dal fango degli acquitrini per il caparbio volere di un despota, e ancora nasconde misere spoglie sofferenti.

Misere spoglie e miserie dell’esistenza, verrebbe da dire pensando alle tragedie consumate fra i canali della città. «È difficile trovare altri luoghi in cui l’anima umana subisca influssi così virulenti, così lugubri e strani come qui a Pietroburgo», raccontava Svidrigajlov nel romanzo «Delitto e Castigo» di Dostoevskij.

«Qui si spira inganno da ogni cosa, qui tutto è inganno, illusione, tutto è diverso dalle apparenze, ripete il fantasma del funzionario Akakij Akakevich, protagonista del «Cappotto», uscito dalla penna di Gogol per inseguire i passanti sul ponte Kalinkin.

Nelle foto scattate alla corte dello zar, Rasputin appariva con i capelli lunghi e piegati sul viso e la mano destra sollevata per benedire. La posa è la stessa nelle vignette pubblicate sulle riviste conservatrici, ma la mano anziché benedire regge una marionetta con le sembianze di Nicola II.

C’è chi pensa che la sua enorme influenza sulla famiglia reale dipendesse dalle passioni della zarina Aleksandra; chi sostiene fosse legata alla salute dello zarevich Aleksej, che era affetto da una malattia del sangue; e chi, infine, afferma si trattasse semplicemente di una storiella orchestrata dai monarchici, impauriti dalle sconfitte dell’esercito imperiale e dalle debolezze del loro sovrano.

Rasputin scomparve la notte del 16 dicembre. Quel giorno la neve cadeva fitta su Pietroburgo: una delle figlie, Maria, avrebbe scritto un giorno di non avere mai sentito un inverno così freddo in Russia.

Il complotto avvenne nella casa del conte Josupov, un nobile imparentato con lo zar che aveva ottenuto la fiducia di Rasputin e gli aveva chiesto consiglio sul sistema migliore per controllare i propri impulsi omosessuali. Gli offrirono quattro bottiglie di vino dolce e avvelenato, ma sembra che il cianuro non avesse alcun effetto suo corpo del santone.
Temendo che il piano potesse fallire, Josupov si decise a sparare, ferì Rasputin al petto, fra lo stomaco e il fegato, eppure quello, dopo essere caduto a terra, aprì gli occhi e balzò davanti cercando di fuggire sulla strada.

Un altro uomo di nome Purishkevich sparò di nuovo, centrò i reni e la spina dorsale, restò fermo mentre Rasputin ansimava nella neve e Josupov chino su di lui gli pestava il volto usando i pugni e una scarpa.

A quanto sembra, furono questi ultimi colpi a provocarne la morte. Con l’auto di Purishkevich trascinarono il cadavere sino alla Malaya Nevka, dove fu trovato la mattina del 19 dicembre. E da allora lo spettro di Rasputin è rimasto impigliato sui ponti di Pietroburgo e nella storia del paese, come un qualunque Akakij Akakevich: non c’è segretario di partito né presidente russo senza un Rasputin personale.

L’ultimo attribuito a Vladimir Putin? Si chiama Aleksandr Dugin e crede che l’Impero americano dovrebbe essere distrutto. Una buona caricatura per le riviste dei conservatori.