Dopo quasi trent’anni, torna al Teatro alla Scala di Milano Orphée et Euridice di Christoph Willibald Gluck, che debuttò nel 1774 a Parigi. L’evento ha il sapore di una prima assoluta, se si considera che tutti gli allestimenti scaligeri precedenti, tra il 1891 e il 1989, si sono serviti, talvolta con interpolazioni e tagli (celebri quelli di Toscanini, poi neutralizzati da Furtwängler e Muti), della prima versione dell’opera, Orfeo ed Euridice, che vide la luce nel 1762 a Vienna. Tra la versione viennese e quella parigina le differenze sono enormi: la partitura fu ampliata e riorchestrata, con l’aggiunta di nuovi balletti e con la trascrizione della parte di Orphée dalla voce di contraltista a quella di haute-contre (tenore acuto).

Le accomuna il carattere di pietra miliare della riforma teatrale e musicale di Gluck, che, grazie alla collaborazione del librettista Ranieri de’ Calzabigi, smontò e liquidò l’eredità ingombrante del melodramma di Metastasio, che risolveva l’horror vacui del tardo barocco con trame complicate e ipercinetiche, con una rigida separazione tra recitativi secchi e arie, con un supino asservimento della musica al canto pirotecnico dei castrati.

Semplificiando la trama, dissolvendo la separazione tra declamazione e canto mediante recitativi accompagnati e ariosi, ripulendo la scrittura vocale dalle smanie decorative dello stile rococò e soprattutto mettendo al centro di tutto la musica, con una scrittura orchestrale pensata in ogni dettaglio (timbrico, dinamico, armonico ecc.), Calzabigi e Gluck danno l’avvio alla messa a punto dell’«opera come dramma» che si compirà un secolo dopo con Wagner. La direzione di Michele Mariotti restituisce con una cura sbalorditiva il miracolo di una musica che dalla prima all’ultima nota scava dentro l’abisso vertiginoso del lutto e si sforza strenuamente di dargli una forma intellegibile, tenendosi alla larga dalle tentazioni nichiliste del sublime preromantico e modulando una malinconia che avvolge e ammalia lo spettatore, chiamato ad attraversare omeopaticamente gli stati della perdita, del dolore, della speranza, dell’illusione, sottratti alla frenesia metastasiana e trasfigurati in un racconto che inizia e finisce con la musica, allo stesso tempo contenitore e contenuto di tutto.

Pura musica è anche la voce inarrivabile di Juan Diego Flórez, unico tenore al presente in grado di onorare in ogni sua piega il ruolo del protagonista, cesellando il pathos con una precisione e una compostezza che costituiscono la quadratura del cerchio del canto lirico. Struggenti e delicate anche Christiane Karg (Euridice) e Fatma Said (Amour). Pura musica è anche l’allestimento di John Fulljames (regia), Hofesh Shechter (regia e coreografia), Conor Murphy (scene e costumi) e Lee Curran (luci), in cui il corpo dell’orchestra, al centro al palcoscenico, si muove insieme ai solisti, ai ballerini e al coro, insufflando la vita in questo ineffabile oratorio dei sentimenti.