Ho incontrato Franco Arminio ad Aliano, al festival La luna e i calanchi, un happening paesologico e rurale durato cinque giorni, con passeggiate notturne nel paesaggio lunare lucano, albe necessarie, concerti, mostre fotografiche e letture di poeti. Anche nei suoi ultimi libri di versi Cedi la strada agli alberi (Chiarelettere) e Resteranno i canti (Bompiani), più comunicativi e diretti, una poesia che sembra scritta per essere letta ad alta voce, Franco rimette in circolo il pensiero di una letteratura civile che nel Sud cerca di ricreare spazi comunitari di civiltà e bellezza senza dimenticare scempi naturalistici ed edilizi, spopolamento, vecchie e nuove emigrazioni. Anche difendendo e nominando il paesaggio, facendo del paesaggio canto e parola nell’incontro tra poesia e natura.

Da sempre hai legato la tua letteratura ai paesi e ai paesaggi, alla natura. «Pensiamo sia importante, vogliamo essere attenti e consapevoli, vogliamo invadere la rete di ammirazione per la natura. Per questo vi proponiamo una sfida per liberare il vostro sguardo più green e poetico», hai scritto in una raccolta che ha un titolo emblematico, Cedi la strada agli alberi. Di cosa è fatto il tuo sguardo green e poetico?

Quando c’è la neve alta io sono contento, sono contento come lo ero da bambino. Mi piace che le automobili non possono muoversi. Sento proprio un’antipatia per le fabbriche, per le autostrade, per tutto il paesaggio disseminato di strutture a servizio delle automobili: carrozzerie, gommisti, autorivendite, pompe di benzina, officine meccaniche. Provo invece una grande simpatia per gli alberi, specialmente quelli solitari in mezzo alla campagna. Quindi prima ancora che una visione politica, per me l’ecologia è proprio un istinto. La poesia è una lucciola alle due del pomeriggio. La poesia che mi piace non è un gioco della lingua, è un gesto semplice, è una secrezione del corpo. A me piace la poesia che porta sulla pagina la nostra crepa più intima e le cose che stanno nell’aria: il dolore per un amore perduto e la catasta di legna davanti alla porta, la via lattea e la via benedetta che gira intorno all’ombelico.

Come paesologo, hai sempre coniugato etnologia e poesia, riverbero tra sentimento interiore e paesaggio urbano e naturale. Cosa ti interessa di questi luoghi persi, paesi abbandonati, di questa natura arcaica, lontana dal consumismo di massa?

Anche qui io partirei dal fatto che è una condizione del corpo prima che un pensiero. Io se vado a Montaguto sto bene, se vado a Lugano o Montecarlo sto male. Sento una sorta di beatitudine della desolazione. So bene che questa condizione del corpo non può essere progetto politico. Il silenzio che fa bene per poche ore può essere molto disturbante per chi lo vive ogni giorno. Non sono un esteta delle rovine e neppure un nostalgico del mondo contadino. Semplicemente l’arcaico mi emoziona più della modernità civile con cui abbiamo ricoperto quasi tutto. Ovviamente con questo non voglio un mondo arcaico, dico semplicemente che l’arcaico come relitto che affiora qui e là porta con se qualche traccia di sacro che la modernità non riesce a portare. La modernità ha disincantato il mondo, forse noi dovremmo provare a reincantarlo. Il problema è che i luoghi sperduti smettono di essere portatori di sacro appena entrano nel recinto dello smercio turistico.

Anche il Festival di Aliano La luna e i calanchi nasce da un sentimento comunitario vissuto dentro un paesaggio struggente, ma anche in un luogo simbolico e forte da un punto di vista memoriale, perché lì fu confinato Carlo Levi. Come mai hai scelto questo luogo?

Mi interessava provare a rovesciare la situazione: far diventare Aliano, luogo di esilio, luogo di accoglienza. Mi pare che questa cosa è avvenuta.

Negli ultimi anni sei stato criticato dai No Triv perché ad Aliano, dove si svolge il tuo festival, l’Eni che ne è sponsor sversa petrolio ed è responsabile di una devastazione ambientale.  Tu li chiami «ciarlatani dello sdegno».

Non credo sia corretto dire che l’Eni sponsorizza la festa. Semplicemente il Comune di Aliano ogni anno si rivolge alla Regione per ottenere un finanziamento e la Regione gira al Comune risorse racimolate ogni anno all’ultimo momento, compresi soldi che l’Eni deve versare alla Lucania a prescindere dalla festa di Aliano. Tutta questa polemica nasce da una mia dichiarazione quando ero candidato con Tsipras. Allora dissi: non è vero che il paesaggio lucano è tutto rovinato dalle perforazioni. È una dichiarazione che confermo. Non ho paura dei mercanti dello sdegno. I lucani, non solo i politici lucani, hanno tutte le possibilità di opporsi alle estrazioni. Il problema non è la festa della paesologia, ma il fatto che è molto debole il moto di protesta e io non sono tenuto ad appassionarmi a questa vicenda. Io credo che le perforazioni a pochi chilometri dai paesi non dovevano neppure essere immaginate. E comunque una volta autorizzate e realizzate ci vorrebbero controlli severissimi che non ci sono mai stati. E penso che sia anche poco corretto limitarsi a chiedere una contropartita economica ben maggiore di quella che c’è. Su questa storia l’ultima parola non spetta né al governo, né ai petrolieri, ma solo al popolo lucano. L’ho detto pubblicamente anche durante la festa appena finita, ma sento che in Lucania c’è una sorta di fastidio per la bellezza della festa paesologica, c’è voglia di gettare qualche ombra. E allora il petrolio non c’entra nulla. E allora la questione è il Sud che si trova a disagio nella bellezza, il Sud abituato alle cose arrangiate e anche un poco corrotte, il Sud che vuole trascinare tutto e tutti verso il basso. La festa di Aliano ha qualcosa di miracoloso, ma si fa fatica a riconoscere i miracoli in una terra che si è sempre pensata sventurata. Ho come la sensazione che tanta gente sarebbe contenta se la festa non si fa più. Noi spendiamo quello che in molti paesi lucani spendono per un concerto di un cantante famoso. Siamo un esempio intollerabile perché mette in luce le ombre degli altri.

Hai spesso parlato di «umanesimo delle montagne», accostando l’arcaico alla modernità. Svuotare le coste e riportare le persone in altura, dare ai giovani le terre demaniali, riattivare la vita comunitaria. Ma secondo te è davvero possibile?

Sicuramente è possibile e avverrà, ma non è una cosa immediata. Ci vorrà molto tempo perché questo processo diventi sostanziale. Per ora bisogna riconoscere che tutto congiura contro i paesi e contro la montagna. Non c’è nel mondo politico e direi anche in quello intellettuale la consapevolezza che l’Italia potrebbe caratterizzarsi nel mondo come la terra dei paesi. Penso a delle piccole comunità che hanno tutte un piccolo cuore produttivo, penso anche all’autosufficienza energetica. Penso a delle piccole comunità dove l’uomo conviviale trova il suo spazio e si crea un modello alternativo all’uomo profittatore che sta uccidendo il pianeta.