Le ricerche relative agli effetti sociali prodotti dai media hanno all’incirca un secolo di vita. Si sono dapprima occupate della radio e della stampa e poi della televisione, mettendo chiaramente in luce l’importante ruolo sociale rivestito da tali mezzi di comunicazione. Hanno dimostrato come i media tradizionali esercitino un’influenza sui singoli e sulla cultura collettiva. Ora gli studi su questa materia cominciano a dedicarsi anche agli effetti prodotti dall’ultimo arrivato: il Web. Da questo punto di vista siamo ancora agli inizi, ma alcuni libri usciti di recente consentono di avviare una riflessione sul ruolo che la Rete tende ad occupare oggi all’interno della società contemporanea.
L’elevata diffusione dei personal computer e dell’utilizzo di Internet ha enormemente facilitato, negli ultimi anni, lo sviluppo di pratiche creative amatoriali, permettendo inoltre di condividere con altri quello che si è creato. Queste pratiche consistono generalmente nel tentativo di prendere qualcosa che già esiste nel mercato e nella cultura sociale e di rielaborarlo a proprio piacimento, reinterpretando il frutto di un lavoro che è stato realizzato da qualcun altro. Quindi, più che di una vera creatività, si tratta di una attitudine «di seconda mano».

Le abilità del bricoleur

Il sociologo francese Patrice Flichy ha analizzato le pratiche espressive e creative nel volume La società degli amatori. Sociologia delle passioni ordinarie nell’era digitale (Liguori, pp. 112, euro 11,99). A suo avviso, la figura dell’amatore è sempre esistita (hobby, giochi, artigianato), ma attraverso il Web è in grado di guadagnarsi una notevole visibilità. Le sue attività però non sono orientate verso la realizzazione di prodotti artistici eccezionali o scoperte scientifiche originali e innovative, ma sono concentrate sul piacere di fare qualcosa con le proprie mani, anziché sulla ricerca di un elevato livello qualitativo del risultato finale.
Il singolo, insomma, come scrive Flichy, «non cerca di sostituirsi all’esperto, né di agire come un professionista; egli sviluppa piuttosto un’abilità ordinaria, acquisita con l’esperienza, che gli consente di realizzare, nel tempo libero, le attività che ama e che ha scelto».
Gli individui che sviluppano tali pratiche creative costituiscono un significativo gruppo sociale delle cui opinioni l’industria culturale deve necessariamente tenere conto, ma questo non è che uno dei tanti strumenti di cui le imprese attualmente dispongono per mettere a punto, in maniera migliore, i loro prodotti e messaggi rispetto alle esigenze dei consumatori.
Non siamo di fronte a un movimento sociale «sovversivo» che mira a ribaltare i rapporti di potere tradizionalmente esistenti tra i consumatori e l’industria culturale, come alcune interpretazioni sorte negli ultimi anni hanno cercato di sostenere.
C’è un aspetto però che vale la pena sottolineare rispetto alle esperienze amatoriali: hanno una grande visibilità sociale, ma coinvolgono solo una minoranza di persone. È più interessante, allora, andare a vedere gli effetti sociali di un’attività produttiva che è molto meno visibile, ma che viene svolta in maniera continuativa da tutti gli utenti del Web. Lo sviluppo della Rete ha fatto completamente saltare la tradizionale distinzione tra tempo libero e tempo di produzione. Ha spinto, inoltre, tutti gli individui a fornire un contributo al funzionamento sul piano economico e aziendale della Rete. Questa, infatti, dipende in gran parte dall’enorme mole di dati e informazioni che viene elargita dai comportamenti individuali e che consente alle imprese di produrre valore.
L’obiettivo è quello di incrementare le informazioni di cui è possibile disporre: in questo modo, diventano più accurati i profili dei consumatori. È per questo motivo che Google, ad esempio, salva nei suoi computer i trenta miliardi di ricerche che i suoi utenti effettuano ogni mese, mentre Facebook continua a possedere la proprietà di tutte le informazioni che vengono pubblicate dal suo miliardo di utenti.

Pubbliche esposizioni

Il controllo di tali informazioni consente di ottenere un significativo potere economico, sia impiegando in proprio le informazioni che vendendole ad altre imprese. Non è un caso, dunque, che tutte le principali aziende operanti nel Web dichiarino solitamente di voler perseguire la libertà e la trasparenza, mentre in realtà il loro scopo è di spingere il più possibile gli utenti a mettere in circolo delle informazioni sulla loro vita. Quello che accade è che gli utenti, senza averne una grande consapevolezza, «vendano la loro vita» e, di conseguenza, attraverso quest’azione ottengano il risultato d’incrementare i profitti delle suddette aziende.
Tutto ciò è reso possibile dall’atteggiamento oggi prevalente presso gli utenti, i quali ritengono che la propria esposizione nel Web debba essere considerata un giusto prezzo da pagare per avere la possibilità di disporre informazioni e immagini relative ad altre persone. D’altronde, sono anche convinti di poter selezionare tutto ciò che vogliono far circolare rispetto loro stessi. In realtà, ciò che mettono sui social network diventa pubblico, che questo sia nei loro desideri oppure no.
Una delle ragioni del grande successo che viene ottenuto attualmente dai social network risiede nel fatto che, con questi strumenti, gli individui vivono l’illusione di poter continuare a portare avanti delle attività che hanno sempre praticato (chiacchierare con amici, scambiarsi pettegolezzi, mostrarsi reciprocamente fotografie delle vacanze, ecc.), ma con tecnologie efficienti, avanzate e alla moda.
In realtà, all’interno dei social network, questi comportamenti assumono un significato totalmente differente, perché non sono più liberi e vengono incorporati all’interno di precisi format tecnici, con il risultato che sono anche impoveriti e standardizzati. Ma, soprattutto, non rimangono più confinati all’interno di uno spazio ristretto e di natura privata, perché sono trasferiti in un territorio sociale molto vasto, dove vengono resi potenzialmente accessibili da parte di grandi masse di persone.

I tentacoli della Rete

Inoltre, proprio perché trasformate da libera forma di socialità a socialità che è obbligata a rispettare dei precisi standard tecnici, le attività relazionali delle persone possono essere gestite e manipolate dalle imprese operanti nel Web. Dunque, vengono anche incorporate come preziose risorse per la produzione di valore da quel potente sistema economico su cui si basa il funzionamento di Internet. Come conseguenza, l’exploit dei social network sta alterando la natura della comunicazione interpersonale, la quale era rimasta pressoché immutata per diversi millenni.
Su questi importanti temi la letteratura scientifica è ancora scarsa in Italia e molto vasta all’estero. Rimandiamo pertanto, per alcune indicazioni di lettura, alla scheda a fianco, per concentrarci adesso su altri aspetti che sono meritevoli di attenzione. Andrea Miconi ha tentato la faticosa impresa di raccogliere e sintetizzare i risultati delle ricerche sugli effetti sociali prodotti dal Web nel volume Teorie e pratiche del web (Il Mulino, pp. 178, euro 13). Dalla sua analisi emergono i risultati di molti studi su cui non ci soffermeremo perché relativi a ricerche e autori ben noti. Ma affiora anche l’idea che oggi il Web sia molto potente: ciò dipende soprattutto dalla pervasività di tale strumento, dalla sua capacità di entrare in profondità nella esistenza quotidiana delle persone, tanto da far saltare la distinzione tra virtuale e reale, luoghi della Rete e luoghi fisici. Non a caso le ricerche mostrano che – più che creare nuovi legami – il Web serve generalmente a mantenere in vita alcuni rapporti sociali che sono stati già stabiliti. Insomma, la Rete si configura come una specie di «specchio della società».

Una religione capitalista

Anche a livello più complessivo, dunque, in essa non possiamo che ritrovare, come dimostra Miconi, una sorta di fotografia di quella condizione di disuguaglianza che rappresenta la norma nel sistema sociale contemporaneo. Quella condizione cioè caratterizzata dalla convivenza tra un gruppo sociale composto da poche persone ricche e masse sterminate di poveri. Certo, ciò non significa che il Web non possa anche essere, in alcune occasioni, egualitario e democratico. La regola, però, è che esso è generalmente orientato a produrre disparità nelle condizioni sociali. D’altronde, quello che abbiamo di fronte oggi è pur sempre un sistema capitalistico, il quale, come è noto, ha nella disuguaglianza la sua caratteristica primaria. Il Web si intreccia semplicemente con tale sistema, rafforzandolo e potenziandolo.
Sappiamo da tempo grazie agli studi storici e sociologici, a cominciare da quelli ben noti di Max Weber, che la religione protestante ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo del sistema capitalistico. Non è sorprendente, perciò, che oggi ci sia chi tenti di stabilire un legame tra il mondo del Web e quello religioso. È il caso del filosofo Antonio Guerrieri, il quale, nel volume Apple come esperienza religiosa (Mimesis, pp. 96, euro, 4,90), sostiene che la figura dell’imprenditore Steve Jobs e tutti quei fenomeni di acceso entusiasmo o vera e propria devozione che alcuni utenti di Apple hanno manifestato verso tale logo, possano essere racchiusi all’interno dell’etichetta «esperienza religiosa». Secondo Guerrieri, non è corretto scomodare, in questo caso, concetti come chiesa, sacro, culto o religione, che sono stati invece impiegati da altri studiosi. È possibile però stabilire una precisa connessione tra i fenomeni che riguardano Apple e una forma di religiosità debole.
Se poi si vuole definire quel legame un po’ particolare di dottrina religiosa, è necessario guardare al mondo orientale. Guerrieri, infatti, sottolinea la notevole importanza che la spiritualità e l’estetica Zen hanno avuto in passato nella concezione dei prodotti Apple. Perché il design minimalista di tali prodotti ha mirato costantemente a quella essenzialità e a quella purezza che sono proprie di quella cultura. E ciò, appunto, spiega il grande successo ottenuto da Apple sul mercato, almeno sino a quando a guidarla è stato il suo fondatore Jobs, devoto cultore di tutto ciò che afferisce all’universo Zen.