Palazzo Paradiso è la sede centrale del polo bibliotecario di Ferrara, il mio posto di lavoro originario, dove sono rientrato dopo molti anni di distacco sindacale, grazie al governo Renzi. È un palazzo bello e imponente, sito in pieno centro storico, fatto costruire nel 1391 da Alberto V d’Este e che deve probabilmente il proprio nome a un ciclo di affreschi ispirato ad esso.

In questi anni di lontananza da questo luogo, i miei ricordi forse non me lo raffiguravano in questo modo, ma certamente mi rimandavano a un mondo un po’ a parte, un po’ ovattato, preservato dal gorgo della postmodernità, presidiato da studiosi e ricercatori interessati alle vicende dell’Orlando Furioso e dell’epopea umanistica – rinascimentale. In questa suggestione ovviamente c’entrava il fatto che la biblioteca Ariostea svolge sì funzione di prestito librario «classico», ma è forte di un patrimonio di circa 100.000 volumi antichi, tra cui molti incunaboli e rari.

Sono stato assegnato, in questi giorni in via temporanea, al servizio di prestiti-rientri dei libri, nel cosiddetto front-office con il pubblico. Siamo poco meno di una decina su due turni di lavoro, a ricoprire tale ruolo, appena sufficienti a rispondere a un’affluenza di persone, soprattutto studenti universitari, che mi dicono essere decisamente cresciuta in questi anni.

Accanto a noi, addetti a dare informazioni al pubblico, e al piano di sopra, con compiti prevalentemente di guardiania dei locali museali, ci sono i volontari dell’Auser, affiliata allo Spi-Cgil. Sono un certo numero, si alternano in circa una ventina su tre turni. Dopo un po’ realizzo che sono volontari un po’ speciali: pensionati che integrano il loro reddito, che non ci vuole molto a capire non è quello delle pensioni d’oro o d’argento, con un rimborso che può arrivare a circa 200 euro mensili, sempre che sia supportato da corrispondenti scontrini che giustifichino le spese sostenute. Una specie di voucher che, per esempio, come mi spiega Rosa che lavora di fianco a me, consente di andare dal parrucchiere visto che per svolgere il lavoro di accoglienza è giustamente riconosciuto che bisogna presentarsi bene.

Poi, al mattino, appena prima dell’apertura al pubblico, passano le donne delle pulizie, rigorosamente dipendenti di una cooperativa, che, come mi fa presente una di loro, gira per 4-5 «cantieri» – così li chiama – al giorno. Avanti e indietro tutto il giorno tra casa e luoghi di lavoro diversi: per fortuna che Ferrara è un fazzoletto e in un quarto d’ora di bicicletta vai da un capo all’altro della città.

In questo puzzle del lavoro, non vedo un’altra tipologia classica, quella dei lavoratori delle cooperative sociali che affiancano i lavoratori pubblici, facendo lo stesso lavoro ma pagati meno. Però – tranquilli – anch’essi, in passato, hanno popolato questo luogo, in una fase di relativo incremento del lavoro, per poi sparire quando le esigenze di ulteriore risparmio hanno ripreso il sopravvento. In compenso, non ci sono ancora i gruppetti di disoccupati e extracomunitari che però stazionano nei mesi invernali, quando fa più freddo, nei locali d’ingresso della biblioteca, creando qualche problema di convivenza – solo raramente di «ordine pubblico» – con gli abituali frequentatori di questo luogo civico.

Non c’è che dire: un bello spaccato di un lavoro che è stato frammentato, che ne ha rotto i legami sociali e di solidarietà, che lo priva di senso generale e lo svalorizza.

Certo, si coglie ancora una relazione di interesse e riconoscimento reciproco all’interno di questa piccola e diversificata comunità , ma a me appare più il lascito in via d’estinzione di una cultura frutto di un glorioso passato – quella civile e solidale che ha accompagnato il «modello emiliano», anch’esso ormai esaurito – piuttosto che un’acquisizione proiettata nel futuro.

Del resto, se l’imperativo è il taglio della spesa pubblica, che sarebbe di per sé improduttiva, anche il lavoro ad essa collegato non può che soggiacere ad esso. Non importa se poi tutto ciò produce impoverimento, disuguaglianza e distruzione della coesione sociale.

Se rimane, alla fine, la solitudine competitiva dell’individuo di fronte al mercato e la contrapposizione tra penultimi e ultimi. Semmai, quello che impressiona è, come dice in questi giorni il premier Renzi, bisogna proseguire su questa strada e, anzi, rafforzarla. Perché, sempre secondo il suo lucido pensiero, c’è ancora «molto grasso da tagliare».

Forse anche a lui, sempre che ce l’abbia mai avuto, non farebbe male rientrare in un posto di lavoro subordinato. Potrebbe vedere un mondo un po’ rovesciato, ma probabilmente più veritiero delle slide con cui ci inonda da un po’ di mesi in qua.