Stamattina, dopo solo due film, incontro un amico a cui voglio bene ma che non vedo da anni (avendo lui figliato a più non posso): R ha un segno riconoscibile distintivo ed è del lido: nessuno più di lui potrebbe diventare Lucignolo per me in una giornata come questa (nono giorno di festival, decimo contando l’arrivo). Dice che dobbiamo vedere il mare. Prima me lo scrive pure via sms. R si gode la vita, ha i suoi tempi, si lascia trasportare da come gira il vento. In parole povere è il mio opposto e, in quanto tale, frequentarlo mi fa bene, mi relativizza al massimo. Dopo sette minuti che stiamo insieme mi ritrovo su una scalcagnata polo Wolksvagen verso il lato opposto al palazzo del cinema.

Con una sua dolce amica dai capelli lunghi biondi e uno sguardo anni 70 mi conduce in una zona abbandonata: l’ex ospedale del lido, al cui interno si nasconde, in un’ala isolata, il teatro Marinoni che un gruppo di prodi ha occupato e gestisce a salvaguardia dell’area, della cultura, dell’incontro tra le discipline. Spendiamo un’ora a visitare il palazzo délabré, le vecchie stanze con le attrezzature mediche arrugginite, il terrazzo a trecentosessanta gradi su mare e laguna dietro la lingua di terra, i numerosi giardini con flora da proteggere. Ci organizzano workshop, spettacoli, lezioni di musica e danza, invitano per delle residenze artisti da varie parti del mondo. È un luogo da mozzare il fiato, dalle mille potenzialità: spero riescano a non farselo togliere. Glielo auguro fortemente.

Sembra di essere fuori dal tempo: potrei essere nel giardino privato di Ingrid Bergman e Roberto Rossellini (Viva Ingrid, Alessandro Rossellini) dove la diva amava coltivare fiori; potrei essere in un’animazione di Laurie Anderson (Heart of a Dog), oro e colori sfocati e voce fuori campo che cita Wittgenstein e «Il libro tibetano dei morti»: «bisogna imparare a sentirsi tristi senza essere tristi». Mi sento bene qui.
Tentatore fino al midollo R mi induce, a furia di lodi verbali, ad assaggiare (poi divorare integralmente) una pizzetta di pasta sfoglia del Canton del gallo: pare siano le più buone di tutta Venezia e io che non mangio carboidrati composti da farine e lieviti, trasgredisco felice (dopo 5 anni di astinenza): ingrasserò ma sarò una donna felice. Si vede che avevo bisogno di essere viziata dopo tante privazioni.

I giorni esauriscono, l’aria di casa (quella vera, la madre casa) si fa sentire nell’epitelio olfattivo della nostalgia, i conti vengono a galla in quest’acqua che non smette di bollire senza sosta. Mi rendo conto di aver veduto molti film con finali tronchi, lasciati liberi alla scelta dello spettatore. Da parte del regista è una scelta di coraggio o di dubbio personale? Rispetta lo spettatore o lo deride? Lo eleva a membro della troupe, gli dà lo scettro di regnante capace di prendere il potere e decidere da che parte andare o, piuttosto, lo butta nella mischia per quasi due ore e poi non si briga nemmeno di salvarlo, lo dimentica in un’amnesia fulminante, non gli getta neppure scialuppa né giubbetto di salvataggio? Insomma quando un regista lascia un finale aperto lo fa perché gli piace lasciare aperte ai suoi protagonisti tutte le potenziali strade da intraprendere o perché proprio non sa come far finire questa benedetta storia? Ai VERI critici l’ardua sentenza, modestamente m’accontento di sobillare il pubblico, nulla dico, nulla profetizzo, il mio nome non è Cassandra