«I muri non restano nella storia, forse durano qualche decina di anni ma non di più. Il muro di cemento e il muro nelle menti… lascia delle tracce nei corpi e nelle anime, un muro che si può scegliere di distruggere… immaginiamo un dopo i muri. Eccone un pezzo, un regalo per te, amore mio, un regalo per tutti». Sono queste le parole dell’artista palestinese Nawras Shalhoub che introducono e descrivono, con grande appropriatezza, l’essenza della sua prima personale italiana. Come se fosse la didascalia ideale ai blocchi di cemento grezzo confezionati come pacchi regalo, con nastri e fiocchi di filo spinato a forma di cuore. Una scultura installazione cupa e pesante, ma al tempo stesso sollevata da terra, lieve. Alcuni blocchi appesi al soffitto, fluttuanti, altri appoggiati su basi di polistirolo.

È così che Shalhoub immagina, sogna o auspica di offrire – in un futuro non troppo lontano – il muro che separa Israele e Palestina. «Mi sono chiesto: cosa fare con tutto questo cemento quando il muro sparirà? Così, ho pensato a confezionare dei regali. È il mio modo di vedere il futuro». Eccolo, allora, trasformato in un souvenir, come anticipa il titolo della mostra A piece of wall for you mon amour alla galleria Oltredimore di Bologna (visitabile fino a sabato 22 novembre).

È stato un progetto difficile il suo, che all’indomani della guerra a Gaza della scorsa estate ha subìto drastici cambiamenti. Shalhoub, che a Gaza ha vissuto e ha ancora parte della famiglia, per settimane è stato sopraffatto dall’incapacità di esprimersi artisticamente, ha scelto però, con nuove opere pensate durante quei giorni, di seguire la sua poetica: trasformare il dolore in qualcosa di costruttivo, un linguaggio che, nonostante tutto, parlasse d’amore.

Tutta la fatica, il disagio e l’immobilità, li ha espressi nell’installazione site specific Monter Leger, una scala di legno che non porta da nessuna parte, i pioli realizzati con fibre di vetro sottili e fragilissime, spezzate nei primi scalini. Una scalata impossibile, in cui è evidente l’incapacità di sormontare il dolore e la pena. Come racconta lui stesso: «Durante la guerra ero bloccato, non riuscivo a risalire la china, mi mancava lo spirito e la forza per lavorare e creare, allora ho realizzato una scala per salire mentalmente, impossibile da percorrere con il corpo. In cui a salire è solo l’idea, il pensiero».

«È stato catastrofico sopportare oltre cinquanta giorni di guerra – continua – ciò che accadeva intorno m’impediva di lavorare allo stesso ritmo di prima. Molta mia produzione è successiva alla guerra, però questo non ha cambiato il progetto e il soggetto della mostra. Volevo parlare del muro e dell’amore, sono rimasto di fatto fedele al mio disegno intellettuale e ho perseverato in quell’atmosfera: cercare la vita in questo bordello (come recita il titolo di una delle opere esposte: La vie est belle avec tout le bordel, ndr), non restare bloccato nel dolore, ma usarlo e trasformarlo in energia positiva, creando opere artistiche. Dovevo trovare una soluzione, la mia soluzione».
Di forte impatto è l’installazione costruita in una sala della galleria, la stessa in cui è adagiata la scala, in cui Shalhoub ha riprodotto con la cera d’api il corpo di una donna, in dimensioni reali, dalle sembianze materne. La figura femminile è seduta sulla terra, all’ombra degli ulivi, sotto è seppellito un uomo, la sua sagoma stilizzata è realizzata con le stesse fibre gialle di vetro usate per la scala, che ad un primo sguardo sembra paglia gialla sulla terra. La donna è il simbolo della resistenza palestinese, silenziosa, ma non corpo passivo. Rappresenta tutti coloro che quella terra non vogliono abbandonarla.

Ne La gardienne des oliviers, spiega l’artista, «la donna che vi è raffigurata è mia madre e, al tempo stesso, simboleggia tutte le madri del mondo che proteggono qualcosa. Ho preso lei ad esempio, ma ce ne sono tante. È la resistenza silenziosa, senza armi, una resistenza che significa esserci e rimanere fermi come un albero che ha le radici piantate nella terra».

 

A dialogare con questa installazione, ci sono alcuni acquari con teche di legno realizzate sempre con cera d’api, in cui sono incastonati proiettili che riproducono volti e profili di donne e uomini, come segnali stradali di fuga senza uscita o bambini con biberon su cui è evidente il segno di un mirino. Il tutto è immerso nel miele contenuto in cornici di vetro trasparenti. Ancora una volta Shalhoub mescola materiali duri e fragili insieme, naturali e non. In fondo alla sala, in un angolo quasi remoto, un cuore realizzato con acrilici e schiuma espansa con i colori della bandiera palestinese. Un’ironia amara e un mix di materiali e simbologie distorte come nella bella arpa realizzata nel 2013, uno strumento musicale funzionante che produce suoni delicati, realizzato con un vecchio elmetto militare a fare da cassa di risonanza, corde in fil di ferro fissate ad una lancia appuntita, probabilmente un residuo bellico. Un gioco drammatico e poetico insieme che mescola simboli, sorprendendo e confondendo «per cambiare senso a materiali di guerra trasformandoli in qualcosa portatore di bene» come racconta Shalhoub.

Non manca un ritratto in omaggio a Vittorio Arrigoni, Pluie de la mer, che l’artista un giorno vorrebbe poter regalare alla madre del cooperante e attivista italiano ucciso a Gaza nel 2011. Molto intenso il lungo video in cui il muro appare sotto forma di cera. Mentre le candele si consumano lentamente, dietro appare un panorama di Gerusalemme al tramonto. Tutte le sue opere sono calate nella storia e la cultura della sua terra.

Nato nel 1974 nel campo profughi palestinese di Yarmuck in Siria, Shalhoub è rientrato con la famiglia in Palestina solo nel 1994. Ha vissuto nella Striscia di Gaza fino al 2001. Nel 2007 si è diplomato alla Scuola di Belle Arti di Strasburgo dove vive da alcuni anni con la moglie e i tre figli.

In merito ai suoi lavori e alle aspettative che creano nel pubblico Shalhoub non ha dubbi: «Voglio essere come tutti gli altri artisti, ciò che accade nel mio paese entra inevitabilmente a far parte delle mie creazioni. Non è una scelta. Parlo della guerra e del muro e, allo stesso tempo, della vita. Le mie opere sono spesso molto dure, pur lasciando aperta la possibilità per chi non vive le stesse problematiche di potersi riconoscere. Spesso da un artista palestinese ci si aspetta che si rivolga solo al suo popolo, alla sua terra e questo m’infastidisce non poco. Mi occupo anche di amore e sofferenza, che in fondo sono temi universali, ci riguardano tutti. Sono un artista e un uomo palestinese. Voglio che la gente guardi al mio lavoro creativo prima di pensare alla situazione politica che mi porto dietro. Desidero avere la libertà che hanno tutti gli altri che lavorano nel campo dell’arte».

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