Cari compagni del manifesto, ieri avete fatto un bel giornale, degno della tradizione, in questa occasione incarnata da Valentino. Io non ce l’ho fatta a scrivere ieri, la vecchiaia provoca emozioni imprevedibili. Sono stato a vedere per l’ultima volta Valentino in una bara, e il suo volto aveva un’espressione come sempre un po’ ridanciana e ironica. Ho abbracciato Delfina e sono tornato a casa per scrivere e comunicarvi i miei pensieri e i miei ricordi.

Valentino per me è stato un compagno «separato», ma sempre un compagno, sia nella comune milizia nel Pci sia dopo, senza interruzione, perché i sentimenti, l’affetto, la stima non si sospendono, se c’è un dissenso politico vero.

Del resto, io e Valentino siamo stati e rimasti «separati», ma due comunisti italiani: discutevamo e polemizzavano già nel Pci, e l’abbiamo fatto ancora dopo, lui dal manifesto io da Botteghe Oscure o da L’Unità, con lo stesso animo. Poi, andavamo insieme in trattoria.

Quando lavorava a Botteghe Oscure, Valentino diceva di essere un «amendoliano di sinistra» e lo confermava anche al manifesto. Io che non ero amendoliano, né di destra né di sinistra, lo sfottevo un po’. In verità, per tutto quello che pensava e faceva Valentino il riferimento era, come per me, Palmiro Togliatti e la matrice storica del gruppo dirigente del Pci.

Ogni tanto, nelle nostre discussioni, mi diceva: «Ricordati che sono siciliano come te»; come a dire, «non sono un ingenuo». Valentino non era un ingenuo, era un uomo gentile, ma fermo nei suoi convincimenti e quindi determinato nell’azione.

Suo padre era di Favara, forte centro zolfifero che conoscevo bene, anche perché favarese era il mio capocellula nella clandestinità, Calogero Boccadutri, e con lui in quel paese ero stato prima negli anni del Fascismo e dopo per organizzare il sindacato. Gli raccontavo queste storie, e gli dicevo dei pregi e difetti dei favaresi. Lui a me è parso sempre che avesse tutti i pregi, come Boccadutri, l’operaio che diventò comunista in carcere, educato da Umberto Terracini.

Valentino fu un grande giornalista, ma anche un dirigente politico nel Pci, al centro e in provincia. Con Reichlin lavorò nel Comitato regionale pugliese, e in quegli anni saldò il suo rapporto con i compagni che avevano come riferimento Pietro Ingrao. Quel gruppo fu unito all’XI Congresso del Pci, nel 1966, esprimendo una posizione politica diversa da quella di Longo e di altri compagni della Direzione, ma nell’alveo della tradizione togliattiana.

Quel gruppo invece si divise nel 1969 quando nacque la rivista il manifesto, con Lucio Magri, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Aldo Natoli e altri compagni. E si divise su una questione che aveva un eccezionale rilievo strategico, e non sulla Cecoslovacchia, come ha ripetuto sino alla noia la Rai e altri giornali.

La posizione sull’invasione di Praga, quando il Pci espresse un grave dissenso, fu comune. La divisione invece riguardava il giudizio sulle lotte sociali e politiche tra il 1967 e il 1969. I compagni del manifesto, anche nel dibattito che si svolse al Comitato centrale, dove fu decisa la loro radiazione, argomentarono con passione e convinzione il fatto che ritenevano che con quelle lotte in Italia era maturata una situazione in cui si poneva, in concreto, il tema della «transizione» e del «potere».

Non con la rivoluzione, ma dal basso con i poteri che si conquistavano all’interno delle fabbriche e nella società. Non è senza significato che a queste posizioni replicò con durezza e argomenti soprattutto Pietro Ingrao.

Tuttavia, la radiazione fu un errore, anche perché quel che si verificò successivamente, dalla strage di Piazza Fontana del dicembre del ’69 fino al governo di centrodestra Andreotti-Malagodi del 1972, smentiva nei fatti quella prospettiva. Lo scontro sociale c’era, ma sarà ripreso poi da Berlinguer su un terreno del tutto diverso, proponendo il compromesso storico e il governo di unità nazionale.

Valentino partecipò attivamente alla trasformazione della rivista in quotidiano, e ne è stato non solo direttore in più momenti, ma sempre una colonna portante del giornale, che ha avuto un ruolo importante nella vicenda politica della sinistra.

Il manifesto non è un partito, cui diedero invece vita nel 1975 Lucio Magri, Luciana Castellina, Vittorio Foa e altri, fondando il Pdup (Magri e Castellina, poi, sarebbero tornati nel Pci). Valentino non aderì, confermando la sua vocazione di giornalista comunista, e in momenti difficili, come è stato ricordato, si adoperò per trovare anche mezzi finanziari per il manifesto.

Conosco bene questa storia, perché Valentino me ne parlava spesso. Lui aveva allacciato un rapporto con pezzi del mondo economico senza cedere un millimetro della sua identità e di quella del giornale. La sua credibilità e la sua onestà politica e morale rompeva il muro che lo divideva da chi avrebbe dovuto elargire un credito o un aiuto al giornale. Questa dedizione, e questa qualità, le aveva assorbite alla scuola del Pci.

Gli ultimi anni della sua vita sono stati, come i miei, amari, per lo stato in cui si trova la sinistra. E i nostri giudizi convergevano su tante cose, anche in questa fase.

Quando mi disse che per contrastare Renzi, alle elezioni comunali di Roma, aveva votato la grillina Raggi, gli dissi che aveva fatto una stronzata. Lui mi rispose: «forse è così».

Stamattina Delfina mi ha detto che insieme domenica erano andati a votare nelle primarie per Orlando. Insomma, in questa fase confusa e, ripeto, amara, per tanti di noi, la ricerca di un momento in cui esprimere un dissenso per quel che c’è e una speranza per un mutamento è diventata la nostra norma.

Tra me e Valentino c’è stato sempre un ritrovarsi in una storia, una storia comune anche dopo il 1969: la storia di una sinistra che c’è stata, e che oggi non c’è nell’agone politico, ma si trova nei sentimenti non solo di noi vecchi ma anche di tanti giovani. Ed è per questo che Valentino se ne è andato senza mai perdere la speranza di un domani migliore.