Il governo di Enrico Letta, che a essere appena appena superstiziosi non è proprio nato sotto i migliori auspici, è una strana specie di bestia mitologica composta, come il minotauro, da parti di diversi animali assemblate alla meno peggio. E’ un governo del presidente, checché il presidente ne dica, perché è stato lui, il presidentissimo, a volerlo, anzi imporlo, a rimuovere d’autorità gli ostacoli che ne impedivano la formazione e infine a piazzare nei posti chiave persone di sua fiducia e gradimento: Economia, Giustizia, Esteri, Welfare. E’ un governo tecnico, perché tecnici sono alcuni dei ministri che dovranno occuparsi dei fronti più nevralgici: quelli di cui sopra e non solo loro. E’ infine un governo politico, perché politici sono i suoi massimi esponenti e perché i due partiti che per vent’anni si sono fronteggiati spartendosi la stragrande maggioranza dei consensi hanno impegnato nell’impresa due dirigenti fortissimamente marcati come appunto Letta e Alfano.

Però, pur vantando due elementi di Dna su tre in comune con il predecessore – governo del presidente e tecnico -, il neonato esecutivo non si pone affatto in continuità con quell’esperienza. Al contrario mira, pur senza conclamarlo troppo rumorosamente, a segnare con la fase Monti una netta discontinuità, considerata imprescindibile sia per non condannare l’economia a una recessione irreversibile sia per restaurare un’immagine decorosa della politica e dei suoi poco stimati agenti agli occhi del popolo votante.

La tendenza è vistosa nella composizione di un governo che più a misura di opinione pubblica non potrebbe essere: molte facce ignote, il cui principale pregio è appunto l’esser poco note e quindi poco detestate; molte donne, il che garantisce almeno un minimo di credito in bianco iniziale; Emma Bonino in bella mostra, popolarissima anche perché i radicali sono da sempre una specie di grillini capaci di stare a tavola comme il faut; parecchi giovani, che la politica già da un po’ viene misurata guardando all’anagrafe più che alle opere; persino una nera, così diventiamo quasi vicini di casa di Barack Obama.

La stessa connotazione, segnata dalla ricerca secca della discontinuità, verrà confermata oggi dal discorso programmatico sulla base del quale Letta otterrà la fiducia: allentamento del rigore, immissione massiccia di liquidità nelle casse spoglie delle piccole e medie imprese, contrasto alla corruzione un tantinello più serio di quello, risibile, della coppia Monti-Severino, persino qualche ritocco all’immobilismo congenito degli assetti istituzionali e alla difesa strenua dei propri privilegi nella quale la politica italiana è da sempre bipartisan.

Una fortezza assediata, come è di fatto l’establishment politico della morente seconda Repubblica, può difendersi in due modi opposti: alzando il ponte levatoio e versando dagli spalti olio bollente, come sarebbe stato il caso di un governo con dentro D’Alema, Berlusconi e/o cloni vari, oppure convincendo gli assedianti a tornarsene a casa, come spera di fare la formula uscita vincente dalle trattative degli ultimi giorni. Il miraggio è noto: due, forse tre anni di governo, qualche buon risultato soprattutto in termini di calo della disoccupazione, e come per magia Grillo tornerà a fare il comico e i suoi elettori a votare per noi.

La fragilità del tentativo, però, è evidente. Risiede proprio nella natura ibrida e composita del governo in questione. Cosmetica a parte, aggredire i nodi che sono arrivati al pettine con Monti, ma che si andavano aggrovigliando da prima che Lehman chiudesse i battenti e che la seconda Repubblica, quanto a corruzione, si rivelasse peggiore della prima, richiederebbe scelte politiche forti e massima determinazione nel perseguirle. E’ il contrario esatto del caso in questione. Qui la spinta antirigorista di Berlusconi sbatterà con la fermissima determinazione del capo dello stato a difendere l’austerità impedendo che “il populismo scassi i conti”. Alla fine, tutto si ridurrà a implorare la Germania perché accetti di non inserire nel deficit le spese per gli investimenti e nello sperare che il semaforo europeo, se non proprio verde, sia almeno giallo invece che rosso fiamma.

I tentativi di attaccare al cuore invece che nell’epidermide la corruzione si infrangeranno contro lo stesso scoglio che già aveva bloccato Monti: il niet di Berlusconi. L’ambizione di allentare la presa soffocante dei politici verrà annacquata e alla fine in larghissima misura vanificata dal peso dei partiti stessi nel governo che dovrebbe ridurne il potere.

Il governo Monti era partito come questo: nel tripudio dei media e tra gli applausi dei politici. Com’è andata a finire è noto. Il suo successore parte con tifo anche più sperticato e battimani più fragorosi. Facile che finirà anche peggio.