Ministro Maurizio Martina, è ancora convinto che, sfruttando l’occasione dell’Expo, l’Italia potrà nei prossimi cinque anni aumentare del 50% l’export del cibo Made in Italy portando il fatturato dell’agroalimentare da 34 a oltre 50 miliardi e potrà far nascere 50 mila nuove imprese?

Negli ultimi dieci anni l’export agroalimentare è cresciuto del 70%. Con Expo possiamo fare un ulteriore salto di qualità e proprio per questo abbiamo voluto dedicare due padiglioni all’esperienza vitivinicola e a quella agroalimentare Made in Italy. Nello stesso tempo il governo ha messo in campo un’azione coordinata tra i ministeri delle politiche agricole e dello sviluppo economico proprio per supportare le esportazioni e contrastare il fenomeno dell’italian sounding, a partire da un mercato di riferimento come quello nordamericano.

Che tipo di azioni contro l’italian sounding, cioè la vendita legale di prodotti che sembrano italiani ma non lo sono (due su tre di quelli venduti all’estero, secondo Coldiretti)?

Vogliamo impostare una strategia d’attacco e non solo di difesa. Vogliamo far conoscere i nostri prodotti, a partire da quelli di qualità Dop e Igp, e creare una campagna di educazione del consumatore straniero verso il Made in Italy autentico. È una delle nostre sfide più importanti, perché i margini di recupero sono imponenti. Per farlo abbiamo pensato anche ad un segno distintivo unico per l’agroalimentare che presenteremo durante i sei mesi dell’esposizione universale.

Cosa risponde a chi critica la presenza ingombrante delle grandi multinazionali del cibo – emblemi di quel modello di agricoltura che crea fame e disuguaglianze – in un evento che ambisce ad accendere i riflettori sul diritto ad una sana e corretta alimentazione?

Difendo l’idea della presenza delle grandi imprese a fianco delle 70 Ong che per la prima volta partecipano ad un progetto Expo. E non era mai accaduto prima, ma di questo nessuno ne parla. La difendo perché un’esposizione universale è esattamente il confronto tra imprese, governi, cittadini e organizzazioni. E io mi stupirei se non ci fosse in un appuntamento così importante la voce della grande impresa globale, per sfidarla, non solo per applaudirla, per far sì che Expo sia una piattaforma di confronto vero anche tra diverse opinioni espresse da soggetti differenti. Non mi interessa il pensiero unico, credo invece che la presenza di Slow Food e Coca Cola, di modelli anche molto diversi da quelli che io sponsorizzo promuovo e sostengo, sia un’opportunità. Ma con chi devo discutere di spreco alimentare soprattutto nella catena industriale, se non con le multinazionali?

Quindi nella Carta di Milano è contenuta anche una critica al sistema dei brevetti sulle sementi, che è il maggiore attentato alla sovranità alimentare attivato dalle multinazionali alimentari?

La Carta di Milano va letta attentamente perché, come è stato ampiamente riconosciuto, è davvero la cornice entro la quale nei prossimi sei mesi si può sviluppare il confronto sui temi più importanti: tutela della biodiversità, salvaguardia dei produttori, soprattutto dei piccoli, investimento per sostenere i redditi di agricoltori allevatori e pescatori, finanziamento della ricerca, educazione alimentare, tutela della biodiversità e del suolo agricolo…

Eppure c’è chi ha contestato la Carta perché la reputa «solo un manifesto di buoni intenti». Cosa c’è di concreto?

Firmare la Carta di Milano significa assumere impegni precisi. Ad esempio per quel che ci riguarda io spero che i sei mesi di Expo aiutino il Parlamento italiano ad accelerare l’approvazione della prima legge sulla tutela del suolo agricolo. Ce la facciamo entro il 2015? È una sfida concreta.

Gli italiani aspettano ancora una legge che impedisca la gestione privata dei servizi idrici…

Sono sicuro che la Carta aprirà una grande discussione sul tema dell’acqua, molto interessante e utile. E ci può aiutare a stimolare seriamente il legislatore a promuovere nuove politiche anche da questo punto di vista.

Quindi lei si augura che il parlamento traduca in norme il responso degli italiani ai referendum del 2011?

Io spero che tutte le istituzioni preposte utilizzino la Carta come grande acceleratore di cose che non sono riuscite fin qui.

Parlando di spreco alimentare, non si può non parlare della distruzione dei prodotti agricoli praticata, soprattutto dalle grandi multinazionali per esempio in Africa come denunciato con forza dall’Agenzia per lo sviluppo dell’Onu, per abbattere i costi e far salire i prezzi, oppure non parlare del land grabbing, l’appropriazione per destinarle a biocombustibili.

Bisognerebbe approfondire bene temi così delicati. Quel che è certo che la Carta pone l’accento sulla lotta allo spreco alimentare. Noi sappiamo che un terzo del cibo che viene prodotto ogni giorno viene buttato. Però lo spreco domestico e quello industriale sono questioni molto diverse. Senza dubbio bisogna combattere certi fenomeni. Penso ad esempio all’uso di prodotti agricoli per la produzione di energia anziché per uso alimentare: questo è un grandissimo tema che noi poniamo anche nella Carta.

Nel padiglione Biodiversità sono presenti molte associazioni che rappresentano l’agricoltura biologica industriale, ma in realtà in Italia a soffrire di più sono le aziende sotto i 6 ettari. Secondo l’ultimo censimento Istat il 30% delle aziende agricole ha chiuso i battenti. Quali azioni metterà in campo per sostenere questo settore che è in continua crescita (secondo l’Aiab, nel 2014 ha registrato un +17% rispetto all’anno precedente a fronte del -2% del mercato convenzionale)?

Ad Expo il biologico sarà protagonista con uno spazio aperto anche alle piccole esperienze, che fanno grande questo settore in Italia. Parliamo di un comparto che vale 3 miliardi di euro, riguarda un ettaro su dieci coltivato in Italia e che vede 52 mila operatori impegnati sul campo, il numero più alto d’Europa. È la testimonianza che l’Italia sul biologico investe, così come investe sulla sostenibilità del modello agricolo. Fino al 2020 investiremo per il sostegno all’agricoltura biologica più di 1,5 miliardi di euro dei piani di sviluppo rurale dei nuovi fondi europei.

Parliamo di agrobusiness: sfruttamento della manodopera agricola, uso e abuso di ormoni o sostanze chimiche che mettono a rischio la sicurezza alimentare, speculazione finanziaria sui prodotti agricoli… come intendete contrastare questi fenomeni?

Ogni giorno lavoriamo per proteggere i consumatori e tutelare migliaia di produttori onesti che con fatica e passione contribuiscono al successo del Made in Italy. In questi dodici mesi abbiamo creato e avviato la Rete del lavoro agricolo di qualità contro il lavoro nero e il caporalato, con la collaborazione dei sindacati, così come siamo impegnati a tutelare il reddito degli agricoltori attraverso tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione. A questo si aggiunge un lavoro importante sul territorio a livello di controlli, solo nel 2014 ne abbiamo effettuati più di 110mila con sequestri per oltre 60 milioni di euro. E’ un impegno costante per garantire concretamente il rispetto della legalità in tutti i passaggi della filiera.

Sugli Ogm la normativa europea è cambiata e ogni Stato può ora decidere autonomamente se vietarli oppure no. Rispetto alle sanzioni per chi li coltiva previste nel piano Campolibero, secondo Coldiretti c’è bisogno di una nuova legge nazionale che sancisca il divieto agli Ogm. Lei cosa ne pensa?

In Italia abbiamo rinnovato il divieto di coltivazione degli Ogm in campo aperto, in attesa delle norme attuative che danno maggiore autonomia agli Stati. Questo risultato fa parte del lavoro fatto proprio dall’Italia durante il Semestre europeo, anche sul tavolo ambiente, dove siamo riusciti a sbloccare il dossier fermo da anni. Crediamo che l’agricoltura italiana non abbia bisogno di Ogm, soprattutto sotto il profilo della competitività economica. Vogliamo al contrario tutelare il nostro patrimonio di biodiversità e puntare su questo come un fattore distintivo.

Cosa chiede l’Italia all’Europa?

L’Europa, con tutti i limiti che ha avuto in questi anni la sua politica agricola comunitaria, si è però sforzata di sostenere i produttori medio-piccoli. E infatti devo riconoscere che la programmazione agricola comunitaria mette a disposizione dei piccoli e medi agricoltori italiani oltre 50 miliardi di euro da qui al 2020. C’è molto da migliorare ma è quello che abbiamo sempre chiesto.