Prima di diventare ministro, l’ingegnere Gaetano Manfredi insegnava «Tecniche delle costruzioni» all’università Federico II di Napoli, di cui nel 2014 è diventato rettore. Il suo campo di specializzazione è l’ingegneria sismica, ovvero l’arte di costruire edifici che resistano ai terremoti. Mentre il 10 gennaio Manfredi giurava da ministro dell’Università e della Ricerca nelle mani di Mattarella, da Wuhan era già partita lo tsunami che solo in Italia avrebbe provocato oltre diecimila vittime, sommerso il nostro sistema sanitario e cancellato le forme di socialità a cui eravamo abituati.

Nella politica economica italiana, università e ricerca pubblica recitano tradizionalmente la parte di Cenerentola, con un investimento pari alla metà della media Ocse. La crisi sanitaria odierna evidenzia l’importanza strategica della ricerca biomedica di base. Da anni, dopo gli episodi della Sars e della Mers, i ricercatori avvertivano del pericolo che un virus diventasse pandemico e suggerivano ai governi di rafforzare i sistemi di prevenzione e cura. Ma nessun governo ascoltò quell’allarme.

Oggi forse gli scienziati otterrebbero maggiore attenzione. Ma la crisi economica richiede colossali interventi urgenti in tutti i settori, l’Unione Europea latita e lo tsunami rischia di far crollare proprio gli investimenti a lungo termine, primi fra tutti quelli in istruzione e nella ricerca.

Il ministro Gaetano Manfredi

Questa emergenza renderà più facile o difficile rilanciare gli investimenti nella ricerca pubblica?

Nella politica del governo c’è un’attenzione particolare per la ricerca e l’università. Lo dimostrano i provvedimenti di febbraio, quindi arrivati prima dell’emergenza, con l’assunzione di 1.600 nuovi ricercatori e il bando da 400 milioni di euro per laboratori e aule. Certo, adesso abbiamo la sfida della ripartenza del Paese che deve necessariamente investire in conoscenza con progetti di lungo periodo. Senza ricerca non ci sarà competitività né capacità di costruire un nuovo futuro per l’Italia. Le altre e vecchie ricette hanno già fallito.

Il governo sta stanziando notevoli risorse per rispondere alla crisi economica. Ma si sta pensando anche a come investire maggiormente nella ricerca medica di base?

Al momento si sta giustamente lavorando su una risposta emergenziale ai problemi dei lavoratori e delle imprese. Appena si metteranno in campo progetti di investimento per il futuro, la ricerca, e in particolare quella medica, troveranno lo spazio che meritano.

L’editoriale sull’ultimo numero della rivista «Science» lancia la proposta di un “Progetto Manhattan” per combattere contro la pandemia: uno sforzo coordinato e finanziato pubblicamente per scoprire vaccini e terapie nel tempo più breve possibile. È possibile riequilibrare questo rapporto tra pubblico e privato che oggi vede le università inseguire le aziende?

L’Europa ha già fatto partire un primo bando di ricerca sul coronavirus a cui hanno risposto raggruppamenti pubblico-privati. Ne seguiranno altri. Attenzione però: anche nella ricerca farmacologica gli studi di base vengono sempre dalle università o da enti di ricerca. Poi lo sviluppo dei farmaci è opera di aziende che investono capitali molto ingenti in attività ad alto rischio. Questo è naturale e ha consentito negli ultimi anni scoperte molto importanti.

Organizzazioni come “Medici Senza Frontiere” chiedono che sui farmaci anti-Covid non si applichino i brevetti per facilitare l’accesso alle cure dei paesi più colpiti come il nostro. Le regole della ricerca industriale sono un ostacolo per la ricerca in questo settore?

La copertura brevettuale garantisce un ritorno per gli ingenti investimenti privati che sono necessari per la ricerca farmacologica, con tassi di fallimento molto elevati. Questo però non deve sottrarre le aziende a una politica di accesso ai farmaci che tuteli i cittadini e soprattutto quelli economicamente più deboli. Questo è compito della politica, che deve essere in grado di contemperare gli interessi in gioco. Il caso dei farmaci e dei vaccini anti-Covid deve esserne un esempio.

Per affrontare l’emergenza, il mondo della ricerca ha accelerato le collaborazioni e sta condividendo conoscenze e informazioni con una velocità senza precedenti. Ci sono idee sull’organizzazione della ricerca che potrebbero essere incorporate in futuri provvedimenti?

La dimensione globale della ricerca va rafforzata con scambi e progetti comuni. La ricerca e l’università hanno dimostrato il volto positivo della globalizzazione, come è testimoniato dai valori del sapere umanistico e scientifico. Capacità di condivisione, confronto aperto, transnazionalità, centralità dell’interesse collettivo. Non dobbiamo meravigliarci perché non c’è miglior bene comune che la conoscenza. Adesso dobbiamo metterla al centro delle nostre politiche, partendo soprattutto dalla valorizzazione dei giovani.

Oggi università e Enti pubblici di ricerca sono chiusi. Ma il ministro è al lavoro: su quali dossier sta lavorando?

Non direi che università ed Epr sono chiusi, altrimenti non ci sarebbero tante persone a far lezione. Dalla ricognizione che abbiamo fatto, fino al 20 marzo più del 90% delle università ha erogato la formazione online, con alto gradimento da parte degli studenti. Se guardiamo alle attività, ben il 94% delle lezioni sono state erogate online, con accesso alle piattaforme da parte di 1 milione e 200 mila studenti, a fronte di un totale di iscritti alle università italiane pari a 1 milione e mezzo circa. Inoltre, sono stati svolti online 70 mila esami solo nel primo mese. Tutta l’operazione emergenziale è stata gestita con l’obiettivo di garantire continuità dell’azione, ovvero sospendendo lezioni con presenza fisica ma senza interrompere le attività delle università, che avrebbe comportato la sospensione di una serie di obblighi: esami, scadenze per il raggiungimento crediti o per la partecipazione degli studenti agli scambi con l’estero, agevolazione tasse. Parliamo di problemi angoscianti per la ripartenza. Nel frattempo stiamo anche lavorando sul dossier investimenti, anche in riferimento al «Piano-Sud» e ai programmi di trasformazione digitale.

L’esperimento di didattica online a livello universitario e scolastico mostra luci e ombre: grande capacità di adattamento del sistema, ma anche un digital divide tra alunni e studenti. È una lezione per il futuro?

Emerge ancora di più la necessità di superare il digital divide in termini di capacità e velocità di accesso. Anche gli stessi studenti evidenziano che oggi sta penalizzando Sud ed aree interne di tutto il Paese. Più in generale, ciò che servirà nella fase post emergenza sono strumenti per una decompressione sociale. L’emozione forte vissuta oggi ci consentirà di mettere a sistema un approccio che alcuni atenei avevano già iniziato a sperimentare: un’offerta “blended”, che abbinerà attività in presenza ad attività online, molto più integrata e inclusiva.