Nella la risposta politica alla pandemia/sindemia la direzione scelta dal ministro Speranza è stata quella di non spingere per la riforma del sistema sanitario, ma di intervenire per sviluppare quella che egli chiama «assistenza territoriale».
Le due componenti principali di questa assistenza sono essenzialmente: le «case di comunità» rispetto alle quali siamo in attesa di sapere se sono o no appaltate al terzo settore (come ho cercato di analizzare su il manifesto dell’11 maggio) e l’assistenza domiciliare.
L’assistenza domiciliare «si rivolge in particolare ai pazienti di età superiore ai 65 anni con una o più patologie croniche e/o non autosufficienti». L’obiettivo del Pnrr è «aumentare il volume delle prestazioni rese in assistenza domiciliare fino a prendere in carico, entro la metà del 2026, il 10 percento della popolazione di età superiore ai 65 anni».
Per questo progetto si prevedono 4 miliardi di euro, di cui 2,72 miliardi connessi ai costi derivanti dal servire un numero crescente di pazienti; 0,28 miliardi per l’istituzione delle centrali operative territoriali (Cot), 1 miliardo per la telemedicina.
Sugli obiettivi nessun problema ma sui modi di raggiungerli molte sono le sorprese.
Il Pnrr dice infatti che per raggiungere tali obiettivi si utilizzeranno gli «strumenti della programmazione negoziata», cioè il ministro rinuncia alla gestione diretta dell’assistenza domiciliare da parte delle aziende pubbliche per appaltarla di fatto ai famosi enti gestori, cioè al terzo settore e al privato. Non è quindi un caso se la proposta non prevede una sola assunzione da parte del pubblico.
Rammento che per sviluppare una vera assistenza domiciliare pubblica servirebbero: un certo numeri di infermieri, un ripensamento dei ruoli professionali, nuovi modelli organizzativi ma soprattutto la rinegoziazione dei tetti di spesa del personale previsti con il famoso «decreto Calabria». Nulla di tutto ciò però è compreso nel Pnrr.
Sembra perciò che la logica del governo sull’assistenza domiciliare sia quella di mercato, una logica molto lombarda: il pubblico acquista dal privato prestazioni assistenziali sulla base di tariffe concordate
In sostanza, mentre nel discorso politico-mediatico si sostiene la sanità pubblica e universale, nella realtà si compra l’assistenza territoriale (case di comunità, assistenza residenziale e assistenza domiciliare) dal terzo settore e dal privato.
La risposta alla pandemia è dunque la privatizzazione (finanziata dallo stato con il Recovery plan) dell’assistenza agli anziani, vale a dire, nel nostro tempo, il vero soggetto politico emergente della sanità e il soggetto più colpito direttamente dalla pandemia.
Una logica peraltro coerente visto che, l’8 settembre 2020 il ministro Speranza con un decreto istituì la Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria per la popolazione anziana, assegnandone la presidenza a monsignor Paglia (gran cancelliere del pontificio istituto teologico per le scienze del matrimonio e della famiglia). Come mettere la capra a guardia dell’orto.
In quell’occasione, il ministro dichiarava che «i mesi del Covid hanno fatto emergere la necessità di un profondo ripensamento delle politiche di assistenza sociosanitaria per la popolazione più anziana. La commissione aiuterà le istituzioni ad indagare il fenomeno e a proporre le necessarie ipotesi di riforma».(QS 21 settembre 2020).
C’è da presumere quindi che le scelte del Pnrr sull’assistenza territoriale e in particolare sull’assistenza domiciliare siano state suggerite dalla Commissione Paglia.
Anziché indurre il governo a ridiscutere il monopolio del terzo settore e del privato sull’assistenza agli anziani, la pandemia ha suggerito non solo di formalizzare tale monopolio ma anche di estenderlo e di rafforzarlo fino a renderlo esclusivo. Un’abdicazione dello stato ai suoi doveri.