Mentre il discorso del primo ministro libanese, Saad Hariri, è rimandato dall’altoparlante in Riad al Solh, la piazza davanti al palazzo del governo, Rana mostra il volantino che ha tra le mani.

«Sta praticamente facendo l’elenco delle nostre richieste – spiega – Sarebbe bellissimo se potessimo crederci, ma non possiamo più fidarci di questa classe politica, è ora che si passi dalle promesse ai fatti. Restiamo qui», conclude risoluta, mentre dalla piazza si alza il grido «Thoura» (rivoluzione).

PER IL QUINTO GIORNO consecutivo il centro di Beirut è stato invaso da decine di migliaia di manifestanti fermi nell’intento di continuare la protesta, spontanea e pacifica, che da giovedì scorso scuote il Libano. Da piazza dei Martiri, dove si innalza la moschea Mohammad Al-Amin, costruita grazie a una donazione del padre del premier e allora anch’egli primo ministro, Rafiq Hariri, fino a Riad al Solh si urlano slogan contro la classe politica.

Nomi che hanno scandito e condizionato la vita di generazioni di libanesi che oggi chiedono un cambiamento. I manifestanti non risparmiamo nessuno, ma se si volesse fare una classifica dei più gettonati, in cima ci sono in ordine sparso: Hariri; il ministro degli Esteri, Gebran Bassil; il presidente e suocero di Bassil, Michel Aoun; il leader di Hezbollah e di solito innominabile, Hassan Nasrallah; il presidente del Parlamento in carica dal 1992, Nabih Berri.

Contro tutti loro si sta scagliando la rabbia dei libanesi che ormai da anni devono fare i conti con un rapido deterioramento del potere d’acquisto, servizi scadenti e sempre più costosi, disoccupazione dilagante, una più recente carenza di dollari (la moneta che affianca la lira libanese). La piazza è colorata dalle bandiere libanesi, solo quelle: la parola d’ordine dei manifestanti è unità.

NON VOGLIONO CADERE nel giogo del settarismo che è alla base del sistema politico libanese. I simboli delle appartenenze politiche, che coincidono con le comunità religiose, sono bandite. «Non ha importanza quale che sia la fede religiosa o la comunità di appartenenza, siamo uniti nella crisi economica e nella speranza di un cambiamento – dice una ragazza – Ho più di trent’anni ed è la prima volta che sento di appartenere a questo paese. So che questa protesta probabilmente non porterà alla fine repentina di questa classe dirigente, ma stiamo cambiando qualcosa e forse ci avvieremo sulla strada di un cambiamento più radicale».

La caduta del governo e un esecutivo tecnico che transiti il paese verso elezioni anticipate, nonché la restituzione del maltolto ai cittadini, sono alcune delle richieste di una raccolta di firme in un banchetto a piazza dei Martiri, dove musica e slogan rimbombano come in una grande festa cui partecipano tutti: famiglie con bambini, anziani, tantissimi giovani, artisti che improvvisano spettacoli. Si distribuiscono bottiglie d’acqua, ci sono banchetti di cibo e bibite, gruppetti seduti a fumare il narghile. Ma l’aria festosa della protesta non deve ingannare, perché dietro i balli e i canti ci sono rabbia e disperazione.

«Sono trent’anni che fanno sempre le stesse promesse e nulla è cambiato – dice Ahmad, 39 anni, precario – Dobbiamo resistere almeno una settimana, dobbiamo fargli sentire il fiato sul collo. Venerdì hanno cercato di farci desistere con la forza, ma il giorno dopo siamo tornati più numerosi e ieri (domenica) eravamo tantissimi, forse un milione. Non vogliamo violenza, non cerchiamo scontri, vogliamo protestare. Vogliamo finalmente essere liberi di parlare e che la smettano di derubarci in questo modo sfacciato».

IL MALCONTENTO è trasversale a tutta la società libanese. La corruzione si è manifestata in modo tanto plateale e arrogante da creare una frattura tra la gente, soprattutto le giovani generazioni, e il partito/movimento politico che rappresenta la comunità religiosa di appartenenza.

Un’appartenenza che ha garantito lavoro, casa, benefici e ora non riesce più a farlo come una volta. La misura è colma: se le ruberie sono state tollerate a fronte di benefici, adesso che il paese rischia il default la tolleranza è finita.

Per la piazza che grida «rivoluzione» sono tutti uguali e per molti la rivoluzione è anche la fine del settarismo. Una strada lunga e difficile e, mentre a Riad el Sohl e a piazza dei Martiri i libanesi protestavano pacificamente, altri libanesi ieri sera hanno cercato di entrare nelle piazze sventolando bandiere di Amal ed Hezbollah, con l’intenzione di fermare con la forza le manifestazione. L’esercito libanese li ha bloccati, ma la tensione è calata su una protesta che si sta ancora organizzando.